C’è un’intrinseca pecca nella perenne diatriba “il rock è tornato” e “il rock è morto”: entrambi i concetti si basano sull’idea che la musica rock sia un qualcosa di logico che una persona decide consapevolmente di fare. Al contrario dei critici che cercano di capire mode e movimenti culturali, la decisione di suonare un guitar‐rock forte, distorto e sfacciato non è una mossa strategica, ma una chiamata dall’alto. Pochi gruppi però oggigiorno incarnano questo spirito come gli australiani Deaf Wish. “Lithium Zion” è il loro quinto album (il secondo per Sub Pop dopo il loro “Pain” del 2015), e sebbene sia raro che il quinto album di una band sia il loro migliore, potrebbe decisamente essere il più interessante. I precedenti dischi sono stati registrati in studi improvvisati – perfetti per catturare l’essenza dei loro riff azzardati, le voci accattivanti e i fieri ritmi così come venivano – ma questo disco suona più professionale senza perdere la sua grinta e potenza. Il disco apre con ‘Easy’, un languido rock che segue la ricca tradizione di gruppi australiani come Scientists. ‘The Rat Is Back’ è intensa ed epica, mentre ‘Lithium Zion’ è un concentrato di energia garage‐punk e pathos postpunk.
Come sempre, l’intero gruppo condivide gli sforzi canori, compreso il batterista Daniel Twomey.
Deaf Wish è un gruppo destinato a scrivere canzoni al tempo stesso sciocche e sublimi, vulnerabili e feroci, e a suonarle con la giusta intensità.
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