Ritorna la DEADBURGER FACTORY, a 7 anni dal cofanetto “la Fisica delle Nuvole”. Pausa lunga ma iperattiva, durante la quale i membri della band hanno portato avanti innumerevoli collaborazioni (tra cui quelle snowdoniane con Maisie e Claudio Milano), dato vita a progetti nuovi di zecca (tra i quali Ossi, il cui album di esordio uscirà per Snowdonia a primavera 2021) e realizzato l’atteso nuovo album della Factory, “La chiamata”.
Il lavoro è opera compiuta in sé e perfettamente fruibile anche da chi non conosce il disco precedente, ma a coloro che lo hanno apprezzato, farà piacere avere la conferma che questa nuova raccolta costituisce la seconda parte del dittico iniziato, appunto, con “la Fisica delle Nuvole”.
Quell’LP era un trip nell’inner side e per questo era in larga misura incentrato su suoni evocativi/onirici, quali viola, chitarra acustica e flauto. “La chiamata” è un faccia a faccia con l’outer side, la realtà esterna con la quale ci scontriamo frontalmente ogni giorno. Per questo è incentrato su suoni decisamente più “materici” e concreti. Zero archi. Quasi nessuna chitarra acustica (ce n’è una solo in “Manifesto cannibale”). E al loro posto: sax urlanti, chitarre elettriche “straight in the face”, contrabbassi percossi per far sentire bene il legno che vibra, e, soprattutto, una grande onda d’urto di tamburi.
Da quel lontano 1996 in cui la band esordì, vincendo, Arezzo Wave, la Deadburger è sempre stata un work in progress, capace di passare da una formazione a due ad un vero e proprio open ensemble, a seconda delle esigenze artistiche, alternando periodi di intensa produzione in studio a numerose esibizioni live. Questa bipolarità ha reso possibile mantenere fede alla loro missione: quella di sperimentare e reinventarsi continuamente senza cedere alla tentazione di ripetersi a solo scopo commerciale.
Il lavoro è curatissimo, i nostri fanno ricorso a diversi media, i disegni di Paolo Bacilieri, autore anche della copertina a doppio strato, un booklet interno che oltre ai testi delle canzoni contiene pure foto, articoli e una piccola galleria d’arte dedicata al tamburo. Il nucleo centrale rimane, comunque, la musica. Quella offerta dal gruppo storico composto da Vittorio Nistri (tastiere e testi), Simone Tilli (voce e strumenti vari), Alessandro Casini (chitarra), Carlo Sciannameo (basso elettrico), a cui si aggiungono anche Silvio Brambilla, Lorenzo Moretto, Pino Gulli, Zeno De Rossi, Cristiano Calcagnile, Bruno Dorella, Lorenzo Vassallo e Marco Zaninello alle batterie, Alfio Antico al tamburo, Silvia Bolognesi al contrabbasso, Edoardo Marraffa ed Enrico Gabrielli al sax, Lalli, Cinzia La Fauci e Davide Riccio alle voci.
La partenza è un assalto all’arma bianca co il pezzo “Onoda hiroo”, chitarre distorte e ritmo incalzante. Il successivo “Un incendio visto da lontano” si sposta in territorio jazz: le due batterie circoscrivono il brano, mentre il cantato attira su di sé l’attenzione e attorno si svolge un lavoro raffinato con l’organo, il piano elettrico e la chitarra che cambia ripetutamente. La title track è al confine tra post-punk e free-jazz lirico. Magnifica la rilettura di “Tryptich” di Max Roach, che, come l’originale, si dipana per voci e percussioni, inizialmente vicina ad una preghiera, poi un urlo straziante. Chiude l’accattivante “Blu quasi trasparente”, che mi ha ricordato i migliori C.S.I. con un crescendo polifonico di voci.
Siamo già giunti al termine di un’opera da ascoltare leggere e guardare, che, in un underground italiano assai disgregato, risulta una gemma unica!!!
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