SAM BURTON: “I Can Go With You” cover albumIl Los Angeles Times, nella figura dei suoi giornalisti, ha messo l’album di Sam tra i venti che non vedevano l’ora di ascoltare in questo triste e maledetto autunno accanto ai nuovi dischi di Bruce Springsteen, Elvis Costello, Chris Stapleton. Per quanto mi riguarda le antenne si sono drizzate nel momento in cui ho visto che l’etichetta che lo ha pubblicato è l’emerita Tompkins Square Records.

Sono bastate le poche note di “I Can Go With You” per attirare finalmente l’attenzione di pubblico e critica sul cantautore Sam Burton: il fascino genuinamente retrò della ballata psych-folk in stile Fred Neil/Tim Buckley ha avuto lo stesso impatto emotivo di uno tsunami e non è sembrato vero a molti di poter riassaporare il gusto malinconico e armonicamente sapido di un’epopea folk dalla ricca valenza culturale e antropica. Il lavoro è prodotto dalle mani esperte di Jarvis Taveniere, già responsabile di album dei Woods e Purple Mountains, in grado di orchestrare un eccitante blend di arrangiamenti elettrici e acustici su un impianto stilistico in modalità sixties. Il risultato è una raccolta di ballate quiete e sbalorditive dispiegate da una voce espressiva ed acuta velata da un senso di malinconia e solitudine.

Un cantautore con sede a Los Angeles con una sorta di grazia sconclusionata e malinconica, Burton fa il suo debutto con “I Can Go with You”, un set di 11 canzoni di sbadiglianti missive country-folk che ricorda un’epoca precedente senza venire fuori come apertamente retrò. Cresciuto a Salt Lake City, ha imparato da solo la chitarra da adolescente, diplomandosi da indie rock e shoegazer in uno stile folk scarno. I suoi ossessionanti nastri lo-fi per l’etichetta Chthonic lo hanno reso un beniamino della scena delle cassette autoprodotte, e quando si è trasferito a Los Angeles, ha ottenuto un accordo con la stimato indie label della Bay Area, la Tompkins Square.

In momenti salienti come “Further from the Known” e “I Am No Moon”, ricorda in qualche modo il lavoro della metà degli anni 2000 del crooner inglese Richard Hawley, infondendo sfumature di country pastorale e rock antico con un tocco di classe che li aiuta a sembrare più senza tempo. Cantate in un baritono disinvolto, le ballate uniformemente a tempo medio-lento di Burton hanno una sorta di dignità soffiata dal vento, non diversamente da Leonard Cohen dei primi album in cui la solitudine indossava un abito su misura e piangeva amori perduti da camere d’albergo economiche. È un tono vagamente specifico che molti hanno provato, ma pochi riescono a trasmettere con una reale convinzione.

L’esordio di Sam Burton è una preziosa raccolta in cui avventurose poesie folk-pop come “Why Should You Take Me There” si alternano al tono noir e da perfetto crooner della languida “Further From The Known”, un brano che rimodella le atmosfere dream-pop sperimentate con la band The Circulars. Canzoni che lasciano stupefatti e senza parole come accade per la folk-rock tune “Nothing Touches Me”, la magnifica ballata in odore di country cosmico che si rivela essere “Tomorrow is an Ending”, la sospesa ed onirica “I am no Moon”, tipico esempio di folk cameristico, il country-western alla moviola di “Stagnant Pool” e la magniloquente psichedelia di “Illusion”. A volte i nomi di riferimento sono altisonanti come Tim Buckley periodo “Starsailor” per la circolare “Wave Goodbye” oppure il Van Morrison di “Astral Week” per “Why I Should You Take Me There”. Che Burton sia arrivato lì nel suo primo album è un’impresa impressionante, ma è l’alta qualità del suo modo di scrivere che rende la produzione e l’estetica generale così bene. Credo che il nostro sia stato al massimo dell’ispirazione durante la registrazione del lavoro in questione e per questo bisogna ringraziarlo di averci donato uno dei dischi più eccitanti di questa stagione!!!


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