DAVID STARR- “Beauty & Ruin”David Starr è uno dei tanti nomi, l’ennesimo, poco conosciuto nel nostro paese, pur avendo esordito nel lontano 2003 e vantando una discografia che conta di una decina di album. Originario dell’Arkansas, ma trasferitosi anni fa in Colorado, è il classico cantautore che si è abbeverato alla fonte californiana dei seventies, di cui possiamo considerare Jackson Browne il caposcuola.
Il nostro costruisce le sue canzoni attorno alla voce e alla chitarra, utilizzando poi pochi strumenti in aggiunta, ma ben selezionati: una steel che ricama alle spalle, talvolta un organo, in certi casi un violino e la sezione ritmica che svolge il suo compito senza mai andare sopra le righe. David ha deciso che il produttore giusto per il nuovo lavoro sarebbe stato John Oates, noto ai più come la metà del duo Hall & Oates, ma che si è reinventato come musicista amante delle sonorità roots e che un paio di anni fa ha dato alle stampe “Arkansas”, bel disco di musica delle radici.
L’album ha una belle storia alle spalle, infatti David e John hanno scelto una serie di autori, tra cui Jim Lauderdale, Oates stesso, il duo formato da Doug e Telisha Williams (noti come Wild Ponies). A tutti è stato consegnato il libro “Of what was, nothing is left”, scritto nel 1972 dal nonno di Starr, Fred, e chiedendo ad ognuno di loro di scrivere un testo ispirato al racconto. La musica sarebbe stata aggiunta in un secondo momento. Il risultato si intitola “Beauty & ruin”, collezione ricca di ballate ispirate e profonde, suonate da musicisti di vaglia quali Glenn Worf, Dan Dugmore e Greg Morrow, strumentisti solitamente operanti in ambito country, anche se qui di tale genere non c’è quasi traccia.
“Laura” è una gentile ballata acustica, che viene direttamente dal cuore, Starr canta con voce pulita e la strumentazione di contorno è parca, ma con i dettagli tutti al loro posto, soprattutto la steel di Dugmore che agisce in secondo piano. Intrigante pure la title track, pezzo suonato in punta di dita con una vaga somiglianza con le cose di James Taylor, ma dal sapore più roots.
“Rise up again” è tersa e ariosa è da la sensazione di essere stata scritta negli anni settanta. Umori western accompagnano “Bury the young” la cui melodia è toccante e suggestiva. Si giunge così alla metà del disco con la traccia che porta il titolo del libro del nonno di David. Brano che parte con calma, che crea attesa per il suo sviluppo, inizialmente attorno alla chitarra fino al ritornello per poi prendere corpo e dare vita ad una composizione coi controfiocchi. Il nostro è un autore di spessore perché non è casuale comporre simili canzoni.
“Road to Jubilee”, il pezzo di Lauderdale, è maggiormente mosso grazie ad una strumentazione che contempla chitarre ed organo che si legano magnificamente al motivo centrale. L’opera prosegue tra delicate ballate e brani leggermente più tesi, ma rimane comunque una sensazione di pace e distensione che rappresenta la cifra stilistica di un disco da gustarsi con calma ed attenzione. Abbiamo scoperto un autore capace di proporre un cantautorato di classe artigianale!!!


Category
Tags

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *