DAVID BROMBERG- “Big Road”È sempre un evento quando esce un nuovo disco di David Bromberg, perché sarà certamente un lavoro su cui il nostro non si sarà risparmiato, lavorandoci a lungo, pensandolo e realizzandolo nei minimi dettagli.   Bromberg è ancora oggi un personaggio unico nel suo genere. Musicista, scrittore, insegnante, liutaio. Un attività irrefrenabile che va di pari passo con la sua straordinaria carriera che lo ha portato al fianco di gente come Bob Dylan, John Prine, Carly Simon, gli Eagles, Ringo Starr, Willie Nelson, Gordon Lightfoot, Bonnie Raitt, Doug Sahm e molti altri. I responsabili della Red House Records, etichetta per la quale esce la raccolta, definiscono “Big road” un lavoro blues intervallato da ballate e qualche brano folk. Include dodici pezzi nuovi tra cover e tracce autografe (solo due), cinque video di performance registrate in alta definizione e un mini-documentario che descrive in dettaglio la creazione dell`album. “Big Road” è stato registrato alla Clubhouse in Rhinebeck, NY.

Nel disco hanno suonato Mark Cosgrove (guitar, mandolin, vocals), Nate Grower (fiddle, mandolin, guitar, vocals), Josh Kanusky (drums, vocals) and Suavek Zaniesienko (bass, vocals). A loro si sono aggiunti Dan Walker (keyboards, piano, accordion), Birch Johnson (trombone), Jon-Erik Kellso (trumpet), Matt Koza (tenor sax), Bob Stewart (tuba) e Larry Campbell (mandolin, pedal steel), che è anche il produttore, ormai un nome sul quale contare ad occhi chiusi per quanto riguarda un certo tipo di musica roots.

Si tratta del quinto album pubblicato da David dal momento in cui ha deciso di ritornare a tempo pieno nel mondo musicale, dopo diciotto anni di assenza durante i quali si era reinventato come produttore e venditore di strumenti musicali a corda. Tra questi si possono citare “Use Me” e “Only Slightly Mad”, due album ai livelli eccelsi dei primi anni settanta, elettrici e ricchi di splendidi brani. Il bravo Bromberg è un musicista che andrebbe preservato nella ‘Biblioteca del Congresso’, magari assieme a Ry Cooder, essendo entrambi delle enciclopedie viventi in materia di folk, blues, rock’n’roll, country, bluegrass, gospel, R&B, in pratica tutto lo scibile in termini di musica delle radici.

Ancora una volta il vero protagonista dell’opera risulta David Bromberg e la sua abilità di polistrumentista e direttore musicale, capace di guidare la band in maniera straordinaria e con gli interplay strumentali tra i vari musicisti che sono uno spettacolo nello spettacolo.

Si inizia con la title track, un pezzo di Tommy Johnson del 1928, leggermente aggiornato, ma non troppo. Originariamente registrato da solo nel suo album del 2006 “Try Me One More Time”, ma questa versione si avvale dell`intera band. Larry Campbell ha scritto uno splendido arrangiamento per i corni, e per questo motivo è presente Bob Stewart, che suonava la tuba nella band di Taj Mahal. Il leader canta con trasporto e grinta, la ritmica sostiene con forza e dietro è tutto un pullulare di violino e fiati che aggiungono un sapore di old time music. E dal blues si passa a un bluegrass ruspante con” Lovin’ of the Game”, in cui anche la fisarmonica e il violino hanno un ruolo centrale nell’arrangiamento. Dalla soulful ballad, screziata di richiami agli anni 50, di “Just Because You Didn’t Answer”, si approda al country più classico, per arrangiamenti e temi, di “George, Merle & Conway” (dedicata ovviamente ai tre grandi artisti country: George Jones, Merle Haggard e Conway Twitty). Il fingerpicking gentile influenzato da Mississippi John Hurt di “Mary Jane”, ci rimanda a tempi in cui l’acustica era lo strumento dei ‘troubadour’ per le campagne del Mississippi, mentre “Standing in the Need of Prayer” si rifà ai field holler, sempre di tradizione ‘nera’.

Devo dire che non era mia intenzione recensire il lavoro in questione così presto, volevo assaporarlo con più attenzione per altri giorni ancora, ma mi è capitato di leggere un post di un amico in cui citava “Diamond Lil” e affermava che ‘la struggente versione ti mette con il culo per terra da tanto è bella’, non ho potuto fare a meno di andare ad ascoltare il brano e…mi ha steso proprio! È un pezzo epico della durata di una decina di minuti, già pubblicato nel 1972 su “Demon In Disguise”, ma qua in una resa che definisco definitiva. Una rock ballad dal motivo toccante con chitarre, piano e violino in evidenza ed uno sviluppo fluido e rilassato, dove si nota il piacere del gruppo nel suonare ed improvvisare insieme, quasi nella maniera che erano soliti fare i Grateful Dead.

È come assistere ad una lezione magistrale, in questo caso ascoltiamo una sorta di viaggio nel cuore della musica americana più autentica, la cui guida è un docente che rende il percorso ancora più affascinante. Preserviamo tali insegnanti perché sono la memoria storica di un tempo che molti vorrebbero eliminare!!!


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