Sono trascorsi dodici anni da quando Jason Swinscoe e Dominic Smith hanno pubblicato il loro terzo album “Ma Fleur” (2007) (ma l’uscita di “To Believe” era inizialmente programmata per il 2016, anno in cui fu svelata la title track). In realtà al duo non interessa la frequenza delle proprie pubblicazioni discografiche, quanto avere qualcosa di interessante da proporre al pubblico.
La Cinematic Orchestra è un gruppo cardine per lo sviluppo della scena del cosiddetto “Downtempo”, un genere musicale che ha le sue fondamenta nel trip-hop, da cui si stacca per la mancanza della matrice hip-hop, mantiene un BPM basso, si colora di radici black quali il jazz, il soul e il dub, possiede un impianto melodico di alto livello e fa largo uso di arrangiamenti in cui dominano archi e tastiere sopraffine. Il genere non durò tanto ai massimi livelli, un paio di stagioni al massimo. L’eccezione è rappresentata dal nostro duo che grazie ad una discografia parca è riuscita a mantenere alti standard qualitativi.
Il nuovo disco viene approntato e registrato interamente in zone di transito: alberghi, appartamenti e spazi condivisi. Muniti di uno studio remoto fatto di MacBook, una tastiera MIDI, una scheda audio universale, un microfono Neumann, ProTools e la voglia di rincorrersi l’un l’altro cercando di non farsi sfuggire nessuna intuizione, trattenendo ogni impercettibile suono stratificato, i The Cinematic Orchestra hanno dato vita a una creazione ambiziosa, meticolosamente realizzata e assemblata.
“To Believe” è composto da solo sette tracce, ma è un raffinato prodotto di laboratorio tipico del progetto britannico, probabilmente il più esplorativo della loro carriera. In molti vorranno ascoltare quel sound così caratteristico, quelle atmosfere eleganti ed ovattate, ma ricche di feeling.
Tra i brani che hanno un chiaro legame al passato citerei il pezzo omonimo in cui la voce di Moses Sumney riesce a trasmettere dosi di soul a caratteri cubitali mentre l’orchestrazione possiede le classiche caratteristiche cinematiche. Altra perla che ci rimanda indietro nel tempo è “Zero one/This fantasy” che, con le atmosfere di stampo dark, ci conduce per sette minuti tra Canterbury sound, jazz, mentre la voce di Grey Reverend rimane in secondo piano rispetto all’uso degli archi che bilanciano il suono delle tastiere su una ritmica sincopata e tesa.
In altri momenti si assiste a novità tra le pieghe delle composizioni come nella fantastica “A caged bird/Imitations of life”, il singolo con Roots Manuva alla voce, che parte da una struttura vicino all’hip-hop ma che poi rientra nei canoni nel chorus con una apertura orchestrale da brividi. Anche “The workers of art”, nel suo andamento solo strumentale, da ampio spazio al solo synth, senza percussioni, e un crescendo di violini che ci rapiscono l’anima.
Sono mancati dodici anni ma, come al solito, i The Cinematic Orchestra hanno consegnato al pubblico un album che corrisponde perfettamente a un viaggio in cui crogiolarsi nella loro arte!!!


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