Christy Moore è un’istituzione in Irlanda, incide infatti per una Major, la Columbia irlandese, che non si sogna minimamente di dargli il benservito. “Magic nights” è il secondo disco live uscito in poco più di due anni, segue infatti l’eccellente “On the road” del 2017. L’etichetta fu così soddisfatta dal precedente che ha chiesto a Moore di dare un seguito a quella strepitosa performance. Assieme al proprio produttore Jimmy Higgins e all’ingegnere del suono David Meade sono andati a rovistare tra gli archivi e hanno scovato ventisei brani dal suo immenso repertorio presi da diverse annate e locations, registrate con band o in solitaria. Riascoltarli ha permesso di scoprire momenti speciali, riff passati inosservati, cori a lungo dimenticati.
Come affermato in precedenza Christy è una specie di monumento della musica e della cultura irlandese. A parte la carriera solista, iniziata esattamente 50 anni fa con l’album “Paddy on the Road” e proseguita attraverso 28 album, tra studio e live, sempre di assoluta qualità, è stato il principale artefice di due dei più grandi gruppi della verde isola: i Planxty, alfieri del folk revival, e i Moving Hearts con il loro sperimentalismo folk-fusion. A 74 anni suonati, il musicista della contea di Kildare, è ancora assolutamente attivo, tra concerti e nuove registrazioni.
I brani del nuovo album non si sovrappongono con quelli di “On the road”, sono diminuiti quelli a firma autografa, solo due, più quattro pezzi tradizionali che vengono arrangiati in modo diverso dall’originale e che li possiamo quasi considerare suoi. Il suono è caratterizzato da un andamento acustico, con chitarre, violino, banjo e poco altro, e la solita splendida voce di Moore, calda ed emozionante come negli anni ‘70.
Aperta da “Magic Nights In The Lobby Bar” (versione di un classico di John Spillane e Ger Wolf registrata alla Opera House di Cork nel 2014), la scaletta del disco include una magnetica versione di “Hurt” dei Nine Inch Nails modellata sulla interpretazione che ne fece Johnny Cash, una commovente “Burning Times” dedicata a Belfast, alla giornalista Lyra McKee (giovane giornalista uccisa a Derry nell’aprile del 2019 da un proiettile vagante), una stupenda “’Spanchilhill” (di Michael Considine) eseguita a richiesta a Glasgow e una improvvisata “Johnny Jump Up” (che la band di Moore non aveva mai suonato prima). Appare anche il pezzo dei Pogues “A pair of brown eyes” raramente eseguito in concerto, pur essendo una traccia dal nostro molto amata, perché abbisogna di una certa atmosfera che probabilmente quella sera nel locale in Vicar Street a Dublino si poteva respirare. Da sottolineare una sentita e avvolgente “Before the deluge” di Jackson Browne che permette di ascoltare un magnifico Declan Sinnott all’elettrica. Non c’è un attimo di tregua, le canzoni si susseguono una più bella dell’altra, mi preme non dimenticare “Motherland” di Natalie Merchant cantata durante il soundcheck a Liverpool.
Si potrebbero citare tutte, ma non vorrei togliere il gusto della sorpresa, quello che mi lascia sempre Moore è la capacità di trafiggermi il cuore ed arricchirmi l’anima. Pochi come lui, uno dei migliori folksinger della scena musicale mondiale.


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