Sono ormai trascorsi più di quarant’anni dall’inizio del mio percorso all’interno del mondo musicale.
È sempre stata la curiosità a muovere le mie scelte. All’inizio mi vennero in aiuto alcune persone più anziane di me che mi suggerirono come orientare le mie scelte, poi, dopo poco tempo, comincia a districarmi da solo sia nella scelta degli artisti, sia a scegliere articoli, riviste ed enciclopedie che mi dessero aiuto nella ricerca.
Rimasi sempre colpito dal fatto della mancanza di rispetto verso il rock tedesco (Kraut) che veniva dipinto come una nota a pie pagina, come un movimento di scarso spessore culturale ed artistico.
Per questo motivo cominciai ad interessarmene solamente una ventina d’anni fa.
Uno dei gruppi che attirarono maggiormente la mia attenzione fu quello dei Can, forse perché, alle mie orecchie, risultava ancora moderno nei suoni, o meglio, era difficile collocarlo temporalmente.
La storia del gruppo tedesco è piuttosto anomala. Nacquero alla fine degli anni sessanta grazie ad un nucleo di musicisti sulla trentina che furono colpiti dal rock e, in particolar modo, dalla psichedelia. Tutti i gruppi rock suonano ciò di cui sono capaci. I Can hanno dovuto stravolgere il loro stile per tentare di suonare qualcosa.
Holger Czukay e Irmin Schmidt, due allievi di Stockhausen, avevano l’intenzione di formare una band fin dal 1965 con l’idea di utilizzare e trascendere la musica classica, etnica, elettronica e sperimentale.
Non se ne fece nulla finché un alunno di Czukay, divenuto nel frattempo maestro di musica, lo incuriosì facendogli ascoltare “I am a walrus”. Fu così che, dopo una lunga nottata trascorsa ad ascoltare Jimi Hendrix, Zappa & the Mothers e il primo dei Velvet Underground, Schmidt e Czukay decisero di incorporare anche elementi rock nel suono della formazione.
Il gruppo era nato, Irmin Schmidt alle tastiere, Holger Czukay al basso e alla manipolazione di nastri, Michael Karoli (l’allievo di cui sopra e unico giovane) alla chitarra e Jaki Leibezeit alla batteria.
Il cantante fu sempre un problema, sia il primo Malcom Mooney, sia il secondo Damo Suzuki, non perché non fossero capaci, benché non vocalist professionisti, ma piuttosto per la loro inaffidabilità.
Dopo questa lunga introduzione vi aspetterete che vi parli del loro capolavoro “Tago Mago”, invece vi narrerò di “Future days” il quinto lavoro dei nostri . un album sia geniale che sperimentale, un concentrato di passato e futuro, qualcosa di impensabile nel 1973 e fonte di ispirazione per numerosi artisti contemporanei.
Il disco è composto di quattro tracce per un totale di trentaquattro minuti di durata.
Un primo ascolto porta a pensare che sia alla portata di tutti, ma durante i successivi conduce a considerazione ben diverse.
Il brano omonimo, della durata di nove minuti, è una miscela esplosiva di ritmiche funk/dance ossessive e ripetitive, percussioni monotone e progressioni dal sapore e profumo jazz-rock. Il termine rock free-form, utilizzato all’epoca, risulta, oggi, inadeguato.
I due brani seguenti, “Spray” e “Moonshake”, alquanto brevi, sono due momenti splendenti di jazz percussivo il primo, di minimalismo sonoro, ritmi incalzanti e di chitarra coinvolgente, ma posta in secondo piano e con la voce di Suzuki sussurrata il secondo.
Il momento topico è il pezzo di chiusura “Bel air”, una interminabile suite di rock cosmico che vede giganteggiare Leibezeit alla batteria.
Rendete omaggio ai Can e a questo lavoro, a mio modo di vedere imprescindibile!!!


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