AUTECHRE: “Sign” cover albumCon un annuncio minimale da parte dell’etichetta di sempre, ovvero Warp, gli Autechre hanno comunicato i dettagli del nuovo album. Il disco, che segue a due e quattro anni di distanza le “NTS Sessions” e “elseq 1–5” s’intitola “Sign” ed è uscito il 16 ottobre 2020. La tracklist è composta dalle solite tracce in codice per una durata complessiva di 1:05:33 (il che li riporta al minutaggio di “Exai” del 2013). L’artwork, per l’ennesima volta, è stato curato dai fidati Designers Republic.

Una volta tenuto tra le dita questo nuovo lavoro del duo si è un po’ fatto il punto su quanto prodotto da Booth e Brown nel corso degli ultimi cinque anni. Sicuramente una mole impressionante di materiale che portava alla luce una complessità estrema, proiettata alla ricerca della contemporaneità, un suono che aveva poco di umano. La recente produzione del duo originario di Rochdale consiste in pesanti discariche di cartelle, residenze radiofoniche per maratone e altre fasce di elettronica sperimentale, deviazioni dai club e astrazioni da ore piccole.

“Sign” è un album sorprendentemente melodico ed è il benvenuto dai pionieri dell’elettronica, ma il suo mondo sonoro distopico è ora in un mercato affollato. Se il devastante e il decisamente inquietante diventano entrambi normalizzati, poche cose hanno ancora il potere di sorprendere nel 2020. Detto questo, pochi si sarebbero aspettati che Autechre evocassero un disco della lunghezza di un album, effettivamente concettualizzato e sequenziato fedele al formato. Queste gocce eccitanti e sconcertanti vengono spesso lasciate crude e non ordinate ai fan per costruire i propri canoni dalla vasta discografia della coppia. Ora trasferiti e lavorando in remoto l’uno dall’altro molto prima del blocco, gli Autechre hanno scavato via a un suono influenzato più temporalmente che geograficamente: electro, bleep techno, gli stili funk e hip-hop della vecchia scuola degli anni ’80 e ’90 continuano a plasmare la direzione dei pilastri della Warp Records.

Sono le melodie che prendono il sopravvento su “Sign”, un disco denso e viscoso con trame sintetiche che mantengono grande profondità, accordi persistenti che lasciano residui e atmosfere lunatiche e sommerse ben realizzate.

“M4 Lema” si rivela un ottimo inizio con la sua balbuzie corrosiva e le spaccature dello spazio negativo che si aprono e si piegano all’interno, rispecchiate da un avvicinamento epocale e lento in “R Cazt”. Eppure ci sono momenti intermedi che non colpiscono affatto: forse l’estetica della distopia fantascientifica ha perso il suo splendore dato da quanto tempo la società ha occupato culturalmente quello spazio. O forse l’ambiente per la musica sperimentale è semplicemente cambiato: è possibile intravedere accenni all’elettronica jazz di Ben Vince nel disco, la techno acquatica di Drexciya, echi di colonne sonore di videogiochi e frasi melodiche da strumentali sporchi e romantici.

Ci sono momenti in cui “Sign” vola davvero, anche se non riesce mai a eclissare quello che ora è un affollato ambiente sonoro. Non importa perché i nostri sono ancora elettrizzanti e stimolanti e, dopo trent’anni, possono ancora indicare la via verso il futuro che ci aspetta!!!


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