AMY HELM – ‘What The Flood Leaves Behind’ cover albumAmy Helm possiede tutta la direzione interiore, la motivazione e l’indipendenza di suo padre, Levon, il batterista e cantante di The Band. A testimonianza di quei tratti caratteriali intrinsechi, si proietta la sua personalità senza tracce di autocoscienza non solo nelle sue collaborazioni quali “Solstice” (New West Records, 2019) all’interno delle Sisters of the Strawberry Moon, prodotti dai North Mississippi Allstars di Luther Dickinson, ma anche i suoi progetti da solista come “What The Flood Leaves Behind”. Il suo terzo lavoro fino ad oggi è un elegante mix di folk, gospel, country e rock che trascende la categorizzazione disinvolta come ‘Americana’.

Non mancano gli artisti (fortunatamente) che hanno fatto buon uso del loro tempo nella quarantena del 2020, ma in base alla canzone di apertura qui, questa donna sembrerebbe essere una che ha avuto il raro dono di vedere oltre le circostanze immediate. La solennità del pianoforte a coda orientato al gospel del produttore Josh Kaufman lascia il posto alle percussioni instabili e alla voce del gruppo in “Breathing”, una metafora del processo di riapertura se ce ne fosse uno, specialmente quando i fiati (Stuart Bogie al sassofono tenore e Jordan McLean alla tromba) entrano sia per ampliare la portata dell’arrangiamento sia per rafforzare l’allegria dell’esecuzione.

Oltre a suonare alcuni degli stessi molteplici strumenti qui come lo stesso padre (mandolino, pianoforte, batteria), Amy ne gestisce alcuni aggiuntivi (harmonium, percussioni) che completano la musicalità di un certo Phil Cook, che ha dato contributi esemplari come cantautore, produttore e polistrumentista in “Smilin’” di Oliver Wood (Miele vaso Records, 2021). Uno di un gruppo di accompagnatori che modellano il loro talento su canzoni come “Are We Running Out of Love”, questo individuo versatile diventa completamente integrato in un’unità legata attraverso la registrazione ai Levon Helm Studios di Woodstock, New York.

Questo collettivo mostra lo stesso gusto ed eleganza della nostra. Comprensibilmente, quindi, le sue distinzioni non rivelano un atteggiamento insulare: proprio come quest’ultimo brano scritto da Daniel Norgren parla indirettamente, ma nondimeno puntualmente, di una cultura divisa su sé stessa, l’artista principale ha co-composto “Carry It Alone”: si pone come un segno pratico degli indispensabili sforzi collaborativi in ​​gioco (un sottotesto della precedente composizione). In effetti, l’intero di questi circa trentacinque minuti di musica terrena e piena di sentimento riflette sia l’immaginario simbolico generale della foto di copertina sia la specificità dei testi stampati all’interno della confezione.

In linea con l’adagio sul tono di essere al top, la voce dignitosa di Amy Helm e lo stile di fraseggio vocale e consegna portano attributi di resilienza e perseveranza. In quanto tale, il suo canto non si perde mai nel mix degli arrangiamenti più densi qui; per esempio, proprio come mantiene la sua importanza come punto focale indiscusso di “Sweet Mama”, che appare al centro della chitarra elettrica, dei fiati e delle voci armoniche, così comanda i brani più semplici come “Terminal B”. Con il suo tacito riferimento al viaggio, quest’ultima traccia fornisce un’introduzione drammatica a “Renegade Heart”, i cui brani cupi riecheggiano fin dall’inizio di questi dieci pezzi. La penultima selezione di questo album, tuttavia, diventa un’ode alla stabilità prima che sia finita, proprio come questo disco.

Non è mai facile essere figlio di un artista famoso, con tutte le aspettative a seguire le sue orme. Tuttavia, con questa uscita Amy, è maturata e non sta seguendo, sta conducendo, sulla propria strada verso il successo musicale e il riconoscimento!!!


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