POLE: “Fading” cover albumÈ passato un po’ di tempo dall’ultima volta che abbiamo sentito parlare di Pole, ma l’innovatore del dub riduzionista tedesco ha ritrovato il suo incantesimo e questa è la sua lastra più bella da secoli.

Sono passati cinque anni da quando Stefan Betke ha pubblicato un full-length, ma ad essere onesti non siamo stati molto interessati alle sue produzioni a partire da “3” del 2000, la terza e ultima parte della trilogia di album di Betke che ancora suonano come poco altro ascoltato. Quei dischi hanno aiutato una generazione di giovani produttori ad accendere la miccia per sperimentare i suoni dub in un contesto elettronico a forma libera, e anche se si è esaurito rapidamente, le tracce possono ancora essere ascoltate sfrigolare. Stefan ha ristampato la trilogia all’inizio di quest’anno e ora l’ha seguita con “Fading”, riprendendo l’essenza insuperabile di quelle prime jam senza ripetersi.

Ispirato dall’idea di perdita di memoria mentre guardava sua madre soffrire di demenza, Pole voleva collegare le idee dei suoi primi album alla propria pratica contemporanea. Ed è esattamente così che suona “Fading”: il suono dub scheletrico e scomposto che era così idiosincratico nel 1998 è ancora presente, ma il nostro lo arricchisce con una mondanità matura che porta elementi di esotismo e il sottile sussurro di lontani, affioranti ricordi pop. Questo non vuol dire che ci siano riff (in realtà non ce ne sono, sono vibrazioni pure dall’inizio alla fine) ma sei trasportato in un mondo in cui elementi stranamente familiari sono avvolti strettamente nel sibilo del nastro e nel rumore bianco.

Come in quei primi album, i ritmi del produttore sono elastici e in continuo mutamento. I suoni della drum machine e i detriti sonori diventano praticamente intercambiabili, fondendosi l’uno nell’altro per creare un universo sonoro altamente distintivo. C’è sicuramente un elemento di nostalgia – la perfezione vitrea e levigata del set Mille Plateaux dei primi anni 2000 è molto ben rappresentata qui – ma Betke la porta in dimensioni contemporanee, aggiornando la cornice senza perdere la sua anima. È il suono di un supercomputer morente in un mondo lontano, se quel supercomputer avesse imparato a conoscere la cultura pop della Terra solo ascoltando la musica del sistema sonoro giamaicano degli anni ’70 e ’80, quindi tutto un concentrato di sonorità soundsystem giamaicane riscoperte in modalità quartomondista (vedi “Roschen”), c’è la techno e l’electro praticate come un rituale iniziatico e, soprattutto, troviamo quest’idea di elettronica free form sculturale, in grado di immergere l’ascoltatore in un mondo lontano in cui ciò che è familiare viene plasmato in combinazioni differenti, asincrone, ma senza che la sua esperienza rappresenti un pericolo o un ostacolo all’esplorazione.

La proposta non è di immediata assimilazione, ma l’esperimento può considerarsi riuscito con il suo incedere fine e ricco di stile!!!


Category
Tags

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *