“From the Far Future pt. 3” è il nuovo lavoro del produttore statunitense Terrence Dixon, uscito sulla berlinese Tresor. Dopo aver annunciato, come un fulmine a ciel sereno, il ritiro dalle scene tre anni fa, il producer è ritornato presto sui suoi passi, riconoscendo quella decisione improvvisa come frutto di un momento di sconforto.
Così a due anni di distanza dal progetto in collaborazione con Thomas Fehlmann, “We Take It From Here”, questo disco è, soprattutto, il terzo capitolo di una serie con lo stesso titolo iniziata vent’anni fa e aggiornata – finora – a cadenza decennale. Una sorta di stato dell’arte della Motor City, ma anche della techno, vista attraverso gli occhi e le orecchie di Dixon, con una prospettiva sì minimale ma al contempo immersa nei mondi acquatici modello Drexciya e impreziosita dal consueto lavoro sui bassi e sui synth che si pongono in primo piano, relegando il kick a scheletro ritmico sullo sfondo.
Qui il nostro è in uno dei momenti più alti della propria produzione in cui è riuscito a dare una forma spaziale al proprio suono minimale. Circa una volta ogni decennio dal 2000 il pioniere Afrofuturista ha offerto un nuovo punto di riferimento della musica elettronica profonda e “From the Far Future, Pt. 3” è uno dei principali esempi del 2020 – e probabilmente del prossimo decennio – della techno di Detroit ai suoi limiti più estremi e sperimentali.
Questa serie di album è stata costantemente il posto dove andare per Dixon e, per estensione, i 313, i lavori più indisciplinati ma più veri, che scorrono tra tamburi rotti, toni di synth alieni dissonanti e i recessi più profondi della mente magazzino in una calibrazione rudemente distinta di meccanica della ‘Motor City’. Per noi è proprio lì con le menti più profonde della città come Jeff Mills, Drexciya, Mad Mike o Howard Thomas per aver prodotto alcune delle ‘machine music’ più vitali ed espressive di quel suono.
L’ultimo punto di riferimento di Dixon lo vede raddoppiare la profondità propriocettiva con acri di lavoro di sintetizzatore astratto e spazializzato mentre si sintonizza e si fotte con le convenzioni ritmiche. Dalle sensazioni del buco nero dell’apertura dell’album all’atmosfera da stazione spaziale abbandonata di “Found In Space” e “Remarkable Wanderer”, e le atmosfere inesplorate del pianeta di “By Land” o “Rotation (Delay Mix)”, ha assolutamente quel lato in blocco, e in un modo che presta la giusta cadenza cinematografica al flusso di ‘raggo muscle car drive’ dell’album tra “Don’t Panic”, le ciambelle di “Spectrum of Light”, uno stroboscopico fulcro technohouse profondo “Unconditional Love” e l ‘ambito del magazzino nello spazio widescreen di “Out of Darkness”.
Ma il tutto risulta ancora una volta pulsante di un cuore umano pur nella densità della tecnologia!!!
https://www.youtube.com/watch?v=RGHb5yHdM3k
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