ROY MONTGOMERY – ‘That Best Forgotten Work’ cover albumAllora Roy sembra essere un uomo di parola, aveva affermato che per celebrare i quarant’anni della propria attività avrebbe dato alle stampe quattro dischi da acquistare singolarmente oppure in blocco, tramite sottoscrizione, per i fan più affezionati.

La prima uscita, “Island of Lost Souls”, risalente ad inizio anno, era un lavoro totalmente strumentale, questo capitolo del chitarrista di Christchurch mette in risalto la forma canzone lungo nove episodi in forma di ballata registrati in casa, in cui il nostro mette in mostra una voce profonda anche se poco elastica. I fan di Roy Montgomery sono divisi in due parti; quelli che stanno bene sia con il modo di suonare del neozelandese che con la sua voce baritonale, e quelli che vogliono solo ascoltare i suoi toni di chitarra vorticosi e immersi nel ritardo. Chissà come i secondi si approcceranno a questo album.

Non solo è una raccolta di canzoni, chiede all’ascoltatore di dedicare qualche riflessione alle parole. Alcune tracce possono essere interpretate come se si trattasse di scelte che il loro autore ha fatto decenni fa. “Pranged” è narrato da un giovane che ascolta le ultime parole lungo la strada di un ragazzo più anziano che ha preferito le auto alle persone. Dato che Montgomery ha composto odi al brivido di aprire l’acceleratore nell’entroterra, ma ha trascorso la maggior parte della sua vita adulta allevando figli e lavorando nel mondo accademico, è giusto ipotizzare che ci sia qualche riflessione sulla strada non intrapresa incorporata nel racconto. E mentre “Pretty” potrebbe essere presa come un’altra traccia d’amore ombrosa, la consapevolezza che un ragazzo sulla sessantina stia usando quel linguaggio ti chiede di dare un’occhiata più da vicino a cosa stia succedendo.

Il passato ritorna, esigente resa dei conti, in un paio di improbabili cover. Una lettura lugubre di “Superstar” dei Carpenters potrebbe essere presa come una promessa senza vergogna del fandom pop. Ma è aperta ad altri significati se si considera che il brano parla di dinamiche di infatuazione portate avanti per lo più da lontano, e poi si ricorda che quando il nostro stava crescendo ci volevano ancora molte merci spedite, inclusi dischi e riviste di musica, settimane o mesi per fare il viaggio dal Regno Unito alla Nuova Zelanda. Se le rock star in generale sembravano lontane negli anni ’70, immagina quanto sembravano più lontane se vivessi nella lontana città agli antipodi di Christchurch.

E se ascolti le parole, “Song to the Siren” di Tim Buckley è un inno a un oggetto d’amore che distrugge l’adoratore senza cura o persino conoscenza. La performance di Roy capitalizza sul contrasto tra la sua gamma sotterranea e la grazia aviaria della consegna di Buckley. La voce di Montgomery, avvolta in sipari di chitarra elettrica echeggiante, trasmette il peso di un accumulo di una vita di perdite, desideri e sfide, proprio come Buckley ha attestato la distruzione provocata dall’amore impossibile. Usando ciò che ha da dirti su ciò che sa, Montgomery offre della musica da ricordare. Un dischetto di grande artigianato che fa la propria degna figura!!!


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