Gli Housewives, un quintetto da Londra, hanno passato la loro (breve, finora) carriera a scomporre sistematicamente qualsivoglia regola compositiva, di natura ritmica o melodica – anche se di melodia nella loro miscela ce n’è ben poca: ritmi sghembi e secchi, inserti digitali, strumenti a corda massacrati, un mix tra i This Heat e la scuola del primo krautrock sotto codeina. Le cose si fanno dannatamente serie in questo secondo album del gruppo inglese che già ci aveva deliziati con il debutto per Rocket Recordings. E’ come se l’asse dell’universo si fosse radicalmente spostato, perché l’identità del gruppo è ora precisa, addirittura severa. E’ come se la loro identità fosse idealmente evaporata, favorendo l’ingresso di più algide architetture che prendessero in esame la musica digitale, il drone, la musica dub e certa matematica (pensiamo ai This Heat di “24 Track Loop”). Un disco dalla freschezza sorprendente ed un passo deciso verso l’affermazione di un nuovo spirito avanguardista.
In Inghilterra erano anni che non si assisteva alla nascita di qualcosa di interessante, ad una scena che, partendo dall’underground, fosse in grado di ripercorrere i fasti della musica d’Albione. Oggi è un fiorire di band che, sia dal lato chitarristico che da quello dell’elettronica, cercano di sperimentare partendo da sonorità riconoscibili. In realtà più che lo sviluppo di una scena, notiamo diverse formazioni che non partono da un’idea di genere, ma piuttosto si concentrano sul suono che si vuole creare.
Gli Housewives, se vogliamo codificarli, rimangono ancora post-punk nel modo di cantare (peraltro sporadico) meccanico e ripetitivo e nella libertà che si concedono nelle scelte che si susseguono solco dopo solco. Gli strumenti,invece, agiscono in modo da apparire quello che non sono. Le chitarre sembrano percussioni oppure sono utilizzate per innescare connessioni midi. Il sax si muove dissonante tra beat digitali, glitch e frequenze basse, più consoni a sperimentatori elettronici che ad un gruppo rock (in senso lato).
L’introduttiva “Beneath the glass” è un ibrido di jazz e IDM con improvvisi tocchi di piano ed uno sviluppo robotico. L’album in generale tende a mantenere l’ascoltare attento agli sviluppi sonori che destano stupore a getto continuo mantenendo viva l’attenzione.
La ricerca insistita delle sonorità adeguate non teme la volontà di uno sviluppo melodico. Il vertice dell’album, da questo punto di vista, può essere rappresentato da “SmttnKttns” con una parte iniziale energica e fiera a cui fa, immediatamente, seguito un cantato stonato e sopra le righe a cui il sax da man forte per giungere a collassare su un pop spettacolare. Verso la fine del lavoro assistiamo ad un paio di pezzi quali “Sublimate Pt. 2” che ci ricorda quanto fosse esaltante la funk-wave (in questo caso digitale), oppure la conclusiva “Hexidecimal wave/Binary rock” un brano che riporta la calma grazie all’utilizzo di organi gonfi e distorsioni ambient.
Un disco che si adatta alla perfezione per incarnare il lato più oscuro e mistificato del progresso, quello che ci fa paura e tendiamo a non accettare!!!
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