Holy-Wave-InterloperDi loro avevo sentito parlare, ma non avevo mai ascoltato un disco, d’altronde sono talmente tanti i lavori che arrivano che risulta sempre più difficile riuscire a stare dietro a tutto. Si fa sempre in tempo a rimediare, perché gli Holy Wave mi sembrano un gruppo che ancora ha una passione per il supporto fisico, infatti il nuovo album esce in diversi formati, tre edizioni in vinile, una su cd digipack e persino in cassetta. Basterebbe solo questo per parlarne, ma poi c’è anche la musica, con tracce che spaziano dal dream-pop allo shoegaze, dal kraut al garage rock.

Non sono degli esordienti, contano già quattro uscite per l’etichetta dei The Black Angels, la The Reverberation Appreciation Society. I nostri sono un quintetto di El Paso che ha trovato casa nei pressi di Austin, un paradiso progressista nel bel mezzo del Lone Star State, un’oasi blu nel deserto più rosso d’America. Per assurdo, Austin è anche una mecca della psichedelia mondiale, patria degli storici 13th Floor Elevators di Roky Erickson, dei The Golden Dawn di George Kinney ed ospite del Levitation Festival (Austin Psych Fest), uno degli eventi più hype in circolazione, inaugurato nell’ormai lontano 2008 ed organizzato dai padri del revivalismo anni dieci, i The Black Angels. La band è formata da Kyle Hager, Julián Ruiz, Ryan Fuson, Joey Cook e Dustin Zozaya, i quali hanno diviso il palco con artisti del calibro di Slowdive, Spiritualized e Hope Sandoval.

La formazione texana riempie i propri brani di ingredienti tipici quali chitarre eco, melodie spaziali e atmosfere nebbiose a cui aggiunge sbiadite forme di shoegaze e potenti riverberi di garage-rock. Ascoltando “Interloper” percepiamo fin da subito una sorta di retrogusto orchestrale ed una volontà di retrodatare il suono a colpi di organo Vox e mini-Moog, un trend già manifesto nel precedente “Adult Fear” (2018).

L’attacco è affidato a “Schmetterling”, le cui cascate sintetiche ci fanno immediatamente pensare agli Stereolab, mentre la successiva “R&B”, pepita lisergica carburata da distesi riverberi ed onirici climax, non tarda a lasciarci senza parole alla maniera di Jason Pierce. “Maybe Then I Can Cry” è una cavalcata psych-rock piena zeppa di chitarre che ci ricorda gli inglesi Ulrika Spacek, altra interessante realtà psichedelica contemporanea. La vocalità confidenziale introduce “Escapism”, pezzo sognante ed allucinato alla maniera degli Slowdive, ci informa che siamo giunto al momento centrale della raccolta, a cui fa seguito “I’m Not Living In The Past”, gioiellino di matrice space-kraut e prima botta adrenalinica del disco, smorzate però immediatamente da “No Love”, una suite orchestrale di chiara derivazione progressive con tanto di sassofono, coretti sognanti e fade-out strumentale.

Rimarranno sempre un gruppo di nicchia, ma cerchiamo di ampliare questa cerchia di appassionati perché gli Holy Wave lo meritano senza alcun dubbio!!!


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