Pubblicato via Dead Oceans, “Breach” è il secondo album di Fenne Lily, cantautrice britannica stanziata a Bristol che ha esordito nel 2018 con “On Hold”. Inglobando influenze dream e chamber pop, l’inglese propone dodici nuove tracce di cantautorato folkish dal mood introspettivo, solitario e malinconico. Nulla di particolarmente memorabile, ma il livello compositivo si mantiene su buoni standard lungo tutti i trentotto minuti e il timbro – talvolta fragile, talvolta austero – si adagia morbidamente sugli accompagnamenti acustici. Si tratta di un lavoro realizzato da una giovane donna nel pieno della sua giovinezza, capace di raccontare la catarsi della post adolescenza e della crescita, di come trovare pace anche quando ci si sente soli. L’album è stato registrato con Brian Deck ai Narwhal Studios di Chicago e da Steve Albini agli Electrical Audio, sempre a Chicago. Proprio l’aiuto di Albini ha dato ai brani un tocco elettrico e chitarristico nuovo per lo stile di Fenne.
Alla tenera età di sette anni i genitori portarono Lily in gita in camper per l’Europa per un anno intero. Cosa veramente sorprendente, perché non capita tutti i giorni di tralasciare la scuola per girare con mamma e papà. Artisticamente, però, è stata la sua fortuna, se è vero che fu la collezione di dischi della madre, in cui poté ascoltare i T-Rex e i Velvet Underground, a farla innamorare della musica. PJ Harvey, Joni Mitchell, Nick Drake e soprattutto Feist furono i passaggi successivi, che la indirizzarono verso il folk-rock spingendola a imparare a suonare la chitarra e a scrivere canzoni di suo pugno.
“Breach”, dunque, è il primo album della musicista inglese a essere pubblicato da un’etichetta discografica. ‘Non avresti potuto prendere una decisione migliore’, le confidò Phoebe Bridgers a proposito del connubio con la label di Bloomington (Indiana), storicamente molto affine a chi si cimenta con una chitarra e la propria voce (si pensi a The Tallest Man On Earth, Mitski, Phosphorescent, la stessa Bridgers). Fenne divenne così definitivamente ‘americana’, almeno dal punto di vista musicale, recandosi a Chicago per registrare le sue nuove canzoni insieme al produttore Brian Deck e a un’istituzione come Steve Albini. È per questo che un paio di brani paiono più rock che folk (“Alpathy”, “Solipsisim”) e alcune ballate (“Berlin”, “I, Nietzsche”) prediligono le sei corde elettriche.
Si percepisce una certa sensibilità anni zero, per esempio nella velata intensità che rimanda ad alcune cantautrici quali Nina Nastasia e Tara Jane O’Neil. I temi cari al cantautorato femminile di questo ultimo decennio sono ben presenti, cioè timidezza, instabilità mentale e un certo nomadismo sentimentale. Non si disdegna l’uso degli archi e delle tastiere in un contesto essenzialmente acustico. Anche la voce, nonostante la giovane età della nostra, sa emozionarci e coinvolgerci.
Difficilmente la Dead Oceans opera scelte sbagliate e, anche in quest’occasione, presenta un‘artista di talento e molto matura a discapito dei suoi ventitré anni!!!
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