Che rapporto c’è tra la musica e l’ascoltatore? Come si definisce l’interazione tra la creazione e il fruitore ? La musica esiste a prescindere dal soggetto che ascolta? Si, certo, la musica necessita di un’atmosfera che propaghi le onde sonore e di un essere senziente che traduca tali informazioni in sensazione, quindi in tal senso l’oggetto musica non esiste e non può che definirsi nell’ implosione nel soggetto-ascoltatore, ma partendo da un livello diverso, direi più estetico-emotivo che filosofico, la musica ci prescinde? Esiste e si caratterizza come oggetto indipendente? Se pensiamo all’ “Inno alla gioia” di Beethoven o a “Stairway to heaven” viene da pensare di si, che siano lì, immote, fenomeni dati a priori con i quali ci interfacciamo ma che non sono una nostra sensazione. Diremmo lo stesso di “Delirium cordia” ?
La centralità del soggetto, non in senso commerciale ovviamente, è rivoluzione recente. Negli anni Venti la nascita della fisica quantistica ha posto il soggetto, semplice spettatore nell’ottica Newtoniana, come essenziale nella determinazione della fenomenologia, più o meno negli stessi anni nelle arti figurative (penso banalmente a Kandinsky, ma non sono un esperto) e forse anche in letteratura si è frantumata la centralità del significato e del contenuto, la forma in sé è diventata contenuto e in sé perfetta, limpida, incontaminata, autogiustificata perché pura sensazione e in quanto tale inscindibile dal soggetto. E in musica? Bisognerebbe intendersene e in tal senso aspetto contributi, certo che tra Mahler e Stockausen corrono pochi decenni, ma sembrano millenni. Da qualche parte, non saprei dove, si è passati dal contenuto/composizione alla forma/suono, passando da un pensiero forte, epico, totalizzante della musica ad un pensiero debole, evanescente, relativo. Tutto ciò se da una parte ha aperto prospettive audaci, di straordinaria antropologia musicale, con pagine di straordinaria profondità (profondità, ovviamente, che è dell’ascolto e dell’ascoltatore, non della musica in sé) dall’altra una concezione debole della musica ha aperto un serraglio da cui non potevano che uscire compositori deboli. Forse nella storia non è mai stato così facile fare musica. Inoltre lo svincolare l’arte dall’oggetto ha aperto le porte sia alla più completa aleatorietà critica sia ad un giustificazionismo senza precedenti per cui l’opera musicale in buona sostanza può giustificare da sé la propria esistenza solo per il fatto che è sensazione. Ad una critica con un atavico complesso d’inferiorità come quella rock questo ha permesso di potersi sviluppare, ricercando faticosamente un proprio linguaggio e una propria peculiarità, nella più completa anarchia logica ed estetica. In altri termini si è passati dalla centralità della struttura musicale alla centralità della sensazione, in quanto tale inconoscibile e insondabile, ma proprio per questo paradossalmente più condivisa e dialetticamente libera. Non potendo dire nulla si è finito per dire di tutto, e questo spiega il successo, altrimenti inspiegabile, di certe opere. Però è anche una questione di prospettiva. Personalmente sono tenacemente legato al pensiero forte ma sto giungendo alla conclusione che un’opera vada giudicata nella prospettiva in cui è stata creata. Per cui chiedersi se Mike Patton sia un genio o un bluff ha risposte multiple in relazione alla visuale che vogliamo accettare.
“Delirium cordia” è un disco così, fuori dal contesto della musica come “sensazione sonora”, quindi legata imprescindibilmente all’ascoltatore, è un disco di una debolezza disarmante, all’interno di tale perimetro si erge come un disco incredibile. Un unico, lugubre, inquietante brano di oltre 70 minuti frutto dell’ unione seriale di parti distinte e ben delineate. Una specie di “Tubular bells” degli inferi. Un flusso sonoro visionario, oscuro, straordinariamente psichedelico, fatto di accenni di canto, voci, fields recordings, accordi pianistici, cori liturgici, tastiere ambientali, passaggi doom subito troncati, sprazzi, invero contenuti, rumoristici, accordi isolati, ipotesi melodiche. Un disco che non va ascoltato e, mi si scuserà, ancor meno descritto, ma va vissuto. In tale contesto, e solo in tale contesto, non si mancherà di rimanere rapiti dal suo straordinario equilibrio, dalle sue notevolissime risonanze emotive, dal suo farsi oscurità in senso pienamente esistenziale, profondo, tragico. Ecco, una quieta tragedia sottende “Delirium cordia”, opera astratta eppure di pressante fisicità. Il metodo di lavoro è clamorosamente zorniano, ma in Zorn, artista geniale che però spesso soffoca se stesso specchiandosi in un’eccentricità che è metodo, quindi accademia, non si rileva lo stesso feeling, la stessa straordinaria capacità di crearsi come universo acustico di dirompente forza drammaturgica e letteraria.
“Delirium cordia” è uno di quei dischi per cui è limitativo affermare che suscitano sensazioni, è una di quelle opere che sono sensazione e solo in essa trovano valore. Gli elementi sono in sé chiari: Zorn, l’ambient dissonante di autori sconosciutissimi come gli Organum, estranianti digressioni para-metalliche, limitati passaggi noise, cori mistici ecc….
Quello che è stupefacente è la totalizzazione emotiva che emerge olisticamente dall’unione delle singole parti.
Quello che è stupefacente è l’imponente scenario che si estende dall’inizio, con la puntina di un giradischi che si appoggia sul disco, alla fine con la stessa puntina che, bloccata, gira senza rientrare per quindici e più minuti. Un giradischi. Che vogliano dirci di ascoltare “Delirium cordia” come un classico, con l’attenzione e l’amore che una volta, all’epoca dei giradischi appunto, si riservava alla musica?
Voto 9
Doktor Kiusi
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