DOVES- “The Universal Want” cover albumI Doves si sono interrotti in un momento strano, subito dopo l’uscita del loro eccellente quarto album, “Kingdom of Rust” del 2009, che ha visto la band raggiungere l’apice. Da allora sono trascorsi undici anni, come vola il tempo quando l’età di una persona sale sempre più. Durante il periodo prima del ricongiungimento avvenuto nel 2018, molti pensarono che il gruppo si fosse sciolto. Diverse situazioni lasciavano supporre che non ci fosse altra spiegazione. Il cantante Jimi Goodwin ha pubblicato un album solista, “Odludek” nel 2014, mentre i fratelli Jez e Andy Williams si sono messi insieme come Black Rivers per un album omonimo un anno dopo. Sebbene entrambi gli sforzi siano apprezzabili, hanno comunque evidenziato che i Doves sono migliori della somma delle sue singole parti. L’album di Goodwin aveva bisogno dei trucchi sonori di studio dei fratelli Williams, mentre l’escursione krautrock dei Black Rivers suonava alla grande, ma mancava l’abilità di Goodwin nello scrivere canzoni (questo nonostante Jez Williams rubasse regolarmente la scena quando conduceva i brani dei Doves: “Words”, “M62” , “Jetstream” ecc.). Il riavvicinamento di un paio di stagioni fa, alcune date, e adesso, finalmente, è il loro momento. E’ il giorno di “The Universal Want”.

Coloro che hanno familiarità con il gruppo di Manchester avranno confidenza con il nuovo lavoro, il quinto della serie. L’opener, “Carousels”, uno dei singoli già diffusi, presenta un’introduzione strumentale di un minuto circa, che ci prepara al classico inno Doves, i familiari riff di chitarra afrobeat mutuati dai Foals durante il loro periodo di lontananza, e percussioni larghe influenzate dal grande Tony Allen, sul sample del quale si è costruito il ritmo. Pochi minuti, ed 11 anni di silenzio sono già stati messi nel cassetto dei ricordi. L’urgente, pastorale folk di “I Will Not Hide”, e il rock indie con svolazzi ambient di “Broken Eyes” li trovano in un territorio ben conosciuto e battuto già in passato, così come il suono di una band rivitalizzata.

Parte della musica qui minaccia di sbandare, ma svolazzi sottili e piccoli accorgimenti, a volte totalmente fuori contesto, creano un diversivo che permette loro di superare la mediocrità. “For Tomorrow”, una traccia saldamente ancorata al 2005 che brama un territorio indie si interrompe improvvisamente a metà strada per un passaggio synth influenzato da Daniel Avery , mentre le tecniche dub usate in “Cathedrals of The Mind” sono unite da sfocature casuali di sassofono facendo riferimento alla Beta Band con i frammenti di chitarre campionate.

Tra gli artisti rock britannici di inizio millennio come Coldplay , Elbow e Badly Drawn Boy , i Doves hanno sempre fatto la cosa più sentimentale fusa con la speranza di un domani ricco di positività. Con la chitarra caleidoscopica ed esotica di “Cycle of Hurt” riconfermano la loro padronanza nel suonare momenti tra accelerando, fluttuazioni e scivolamenti, il tipico pezzo da suonare live con il pubblico che intona il ritornello. Così come “Prisoners” che continua nella stessa vena, risultando uno dei momenti salienti dell’album, altro ritorno alle venature soniche e strutturali degli esordi.

Non era semplice e scontato ritornare sulle scene con un disco che si dimostra coeso, in cui è la band stessa a venire esaltata, non il singolo gesto di uno solo dei componenti. Il tempo che hanno avuto a disposizione ha esaltato la capacità di affinarsi alla ricerca di nuovi sentieri ed avventure, non l’attitudine a sedersi sui ricordi dei tempi che furono!!!


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