Fino a quattro anni fa non sapevo nulla circa l’esistenza di Doug Paisley, devo dire ancora una volta grazie al mensile inglese Uncut per avermelo fatto conoscere tramite il cd allegato alla rivista. Mi risuonano nella mente le parole di tanti ascoltatori che continuano a sostenere che la musica è finita verso la metà degli anni settanta, la qual cosa mi sembra essere una giustificazione al fatto di non volere più acquistare musica oppure di rimanere ancorati al proprio orticello fatto di certezze e bambagia.
Già “Strong feelings” aveva messo in mostra le qualità di questo folksinger canadese, descritto da Uncut come un poeta del quotidiano. Per la pubblicazione del nuovo lavoro si è preso tutto il tempo necessario, rifuggendo dai ritmi frenetici che caratterizzano il mercato discografico, così come è rimasto estraneo alle dinamiche della promozione digitale. Eppure non si tratta di un disco dimesso, perché ci sono sicuramente situazioni al suo interno che lo elevano ad opera di grande qualità. La sensibilità artistica prima di tutto, la sua tecnica chitarristica, il tempo impiegato per la realizzazione nonché la presenza di diversi ospiti, tra gli altri l’amico Matthew Barber, Jennifer Castle, Bazil Donovan dei Blue Rodeo che non vanno ad intaccare gli arrangiamenti che risultano essenziali e senza inutili orpelli (qualche tocco di organo e tastiere, un violino, la pedal steel). La sostanza del disco risiede tutta nelle mani e nella testa di Doug. Sono nove canzoni per una durata ridotta in cui a far la parte del leone sono la voce confidenziale del suo autore, il picking della sua chitarra sempre ripiegato su sé stesso e mai sopra le righe. È un album più asciutto rispetto ai precedenti, quasi a voler porre in primo piano l’aspetto lirico, le storie che ci vuole raccontare, quasi a volersi immedesimare in qualche cantastorie texano. Emerge per esempio la figura di Townes Van Zandt per quel senso di sconfitta che caratterizza “Mister Wrong”, “Drinkin’ with a friend” e “This loneliness”.
A volte certe tonalità vocali e i delicati arrangiamenti fanno venire alla mente autori dei seventies come Gordon Lightfoot e John Stewart nel brano omonimo e in “Easy money”.
Un lavoro dalle sonorità molto uniformi, a parte il crescendo corale di “Dreamin’ e quello scatto improvviso di “Shadows” nel finale. Se amate le sonorità piane e distese Doug Paisley entrerà a far parte dei vostri ascolti irrinunciabili!!!


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