Eccoci ancora una volta nella situazione di parlare di un disco uscito quasi un anno fa, ma d’altronde non si può essere sempre tempestivi. Era però necessario parlarne perché il buon Dennis è uno che merita, nonostante l’indifferenza che lo ha sempre accompagnato a parte uno sparuto seguito di base quasi esclusivamente negli Stati Uniti. La sua carriera si è sviluppata lungamente con il gruppo dei Refrigerator, ma, soprattutto, come guida della Shrimper Records, un’etichetta fondamentale nell’ambito dell’indie lo-fi depresso, avendo avuto nel proprio roster nomi quali Mountain Goats, Lou Barlow, The Secret Stars, Herman Dune e Simon Joyner tra gli altri.
L’album è stato pubblicato il 14 febbraio 2020 tramite la Shrimper e si intitola “The Dead of the Day”. L’uscita discografica è caduta lo stesso giorno del romanzo di Callaci “100 Cassette” pubblicato da Pelekinesis la cui narrazione si lega alle canzoni di questa uscita discografica. Il libro è composto da 100 meditazioni sulla musica, il commercio e l’astratto. Con una prefazione di Jonathan Lethem e una postfazione di Allen Callaci, il libro si snoda attorno a informazioni autobiografiche, la ricca cultura di ‘La California meridionale dal 1969 ai giorni nostri e tutti i punti musicali intermedi’.
Il terzo di un trittico di album solisti di Dennis Callaci della band Fridge è iniziato con “Bed Of Light” con Simon Joyner, David Nance e la band Ghost, nonché Kevin Morby e Jarvis Taveniere come un disco orchestrato di cinque pezzi, che ha ceduto il passo al pezzo di trenta minuti “The End Of Night” due anni dopo. L’ultimo pezzo di questa serie è il nuovo disco “The Dead Of The Day”, un disco acustico ridotto al minimo senza batteria.
Ballate per chitarra e pianoforte, fughe funebri, un intro strumentale di quindici minuti e altri randagi ruvidi siedono insieme con testi che suonano l’uno dall’altro. Franklin Bruno suona il piano e l’organo, il collaboratore di lunga data Aaron Alcala è in alcune canzoni e la voce di Allen Callaci appare come un ritornello spettrale nel brano “Scoreless”.
Sicuramente il nostro non ha il talento di Bill Callahan (ma in quanti lo possiedono?), non sarà inserito nel gotha della canzone americana, ma se siete amanti dei suoni e del mood di coloro di cui ho parlato all’inizio non potrete fare a meno di farlo entrare nella vostra collezione. In quest’occasione si lancia in un’apertura di quindici minuti per chitarra acustica (“All Saints”), in cui si esibisce in forme sperimentali pur nella ristrettezza strumentale e produttiva e che tiene desta l’attenzione richiamando alla memoria cose alla Gastr Del Sol. Il resto del programma, molto più nelle sue corde, risulta molto interessante soprattutto nei momenti in cui il nostro si esibisce al piano, come nel caso della title track. Atri momenti degni di essere ricordati mi sembrano “On a Line” di una fragilità che sembra sempre sul punto di spezzarsi e gli umori roots di “Coffin Blues”.
Mi ha emozionato quasi fino alle lacrime, un perdente di tal fatta che non accenna ad arrendersi, anzi mantiene una coerenza che gli fa onore. Provate ad avvicinarvi potreste andare incontro ad una sorpresa inaspettata!!!
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