Con un nome così importante non può non attirare l’attenzione, a maggior ragione una volta scoperto che Charley è veramente un discendente del leggendario Davy Crockett. Al di la di queste notazioni di colore il nostro è un musicista interessante che si cimenta con bravura nel solco del country-folk-Americana. Ha iniziato a fare questo lavoro a meta di questo decennio, primo ha vissuto un’esistenza un po’ sopra le righe.
È nato in Texas, ha vissuto a New Orleans e New York, ma anche in luoghi inaspettati quali Francia e Marocco dove ha intrapreso la carriera di busker esibendosi lungo le strade. Per non farsi mancare nulla ha avuto guai con la giustizia, ha subito l’onta dell’arresto per possesso di cannabis la prima volta, mentre la seconda l’accusa era molto più grave cioè frode assicurativa, ma fu giudicato in buona fede e scarcerato al contrario del fratello che si fece sette anni dietro le sbarre.
Come detto con il decennio in corso si è messo sulla retta via e ha iniziato a pubblicare dischi sia a proprio nome, sia con lo pseudonimo di Lil G.L.. Nel gennaio di quest’anno ha subito un intervento a cuore aperto il cui esito è stato fortunatamente positivo. Il disco “The Valley” uscito in questi giorni era già pronto prima dell’intervento chirurgico. Si tratta di un album di vero country d’autore che si ispira ai grandi del genere e che presenta testi molto autobiografici.
Il nostro dimostra di essere in possesso di ottimo talento e la musica che ne deriva è veramente pregevole. Il lavoro alterna pezzi autografi a cover in grado di rivelare che le influenze di Crockett sono quelle giuste. Non c’è traccia del sound di Nashville solo autentico country d’autore. Si inizia con “Borrowed time” che pennella una splendida melodia anni cinquanta grazie all’uso di una strumentazione vintage. La title track emana le stesse sensazioni e richiama alla mente gli esordi di Merle Haggard con una steel in bella evidenza e un chitarrone twang da gustare fino all’ultimo.
“5 more miles” è una traccia che scarica elettricità da tutti i pori e risulta più moderna alle orecchie, mentre “Big gold mine” si sposta nel solco del western swing tipico delle feste popolari di paese. Tra le cover citerei la bella “Excuse me” di Buck Owens molto rispettosa dell’originale e “9 pound hammer”, portata alla fama da Merle Travis, che viene rivista per sola voce e banjo assumendo così l’aspetto di una folk song antica.
Opera che dimostra che ci sono ancora le possibilità di emergere per chi fa del vero country, non è necessario infilarsi nelle catene di montaggio dell’industria nashvilliana per avere successo!!!


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