Il Canada, quel grande paese a nord degli Stati Uniti, ricco di foglie di acero, praterie e montagne rocciose è uno dei luoghi di maggior importanza in materia di puro songwriting.
Per molti sono tre le istituzioni canadesi in termini di canzone d’autore: Leonard Cohen, Joni Mitchell e Neil Young.
In realtà sono parecchie altre le penne da ricordare quali Gordon Lightfoot, Robbie Robertson Buffy Sainte-Marie.
Oggi mi preme raccontarvi di Bruce Cockburn. Originario dell’Ontario, il nostro è un eccellente songwriter e chitarrista. Il suo stile musicale miscela sapientemente rock, folk e jazz con liriche fortemente legate al reale, alla vita presente.
Bruce, come Neil Young, ha sempre espresso una grande voglia di fare musica, di misurarsi con lo studio di registrazione. Ha inciso trenta albums e solo due sono dischi dal vivo.
I suoi lavori sono tutti di musica originale, non ci sono dischi di covers, duetti, brani autografi reinterpretati. La sua figura si eleva nobile nel panorama dei cantautori.
Non è un personaggio che abbia ricevuto molto rispetto al tanto donato in termini di standard qualitativi della sua opera.
Come Cohen, iniziò giovanissimo a scrivere poesie, ma, contrariamente al suo conterraneo, non penso mai di abbinarla ad un contesto musicale. Le due attività le vedeva non sovrapponibili.
Nella lunga strada che lo ha portato a divenire quel raffinato musicista abbiamo potuto cogliere il blues di Mississippi John Hurt, la tecnica country di Chet Atkins e il virtuosismo del jazz.
Sono passati sei anni dal suo ultimo disco prima che Cockburn, a fine estate, ci presentasse “Bone on Bone”.
La produzione è affidata all’amico Colin Linden, un musicista che lavora minuziosamente sui suoni.
Cockburn è ormai ultrasettantenne per cui la voce si è fatta più roca e a volte sembra che il fiato venga meno.
Fortunatamente il disco si presenta con brani di ottimo spessore artistico.
L’iniziale “ The state i’m in” ci dona un micidiale giro di acustica per una canzone che ancora una volta mischia sapientemente rock e blues.
“Stabt at matter” è una folk song elettrica in cui la strumentazione dà grande fluidità e Colin Linden si fa sentire con piacere alla slide.
“ 40 years in the wilderness” è una ballata ispirata, impreziosita dalla fisarmonica del nipote John Aaron e dalla seconda voce di Mary Gauthier.
Il talking di “3Al Purdy’s” è una lunga composizione, personale, dell’autore, resa magica da una strumentazione atta a risaltare la qualità con fisarmonica, ritmica e chitarra che preparono il campo alla cornetta suonata con sensibilità da Ron Miles.
Immancabile la concessione alla madrelingua di “Mon Chemin” per un pezzo leggermente jazzato in cui spicca ancora la cornetta che ne dona originalità.
“False River” è uno dei brani di punta, una canzone lunga cantata con pathos e la strumentazione che la tiene sospesa.
Teniamocelo stretto, non è facile trovare tanta classe e spiritualità in un disco.

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