Cover album BOB DYLAN- “Rough And Rowdy Ways”Sinceramente non mi sarei aspettato di trovarmi qui a scrivere di un disco di canzoni nuove di Bob Dylan. L’ultima volta che accadde fu con “Tempest” nel 2012. Nel mezzo ci sono stati diversi accadimenti, un Nobel per la letteratura nel 2016, tre album dedicati alle cover di Frank Sinatra e dell’American Songbook, di cui l’ultimo fu addirittura triplo. Ovviamente continuò imperterrito il ‘never ending tour’, fino a che una pandemia lo costrinse, suo malgrado a fermare tutto. Poi, nei giorni più cupi del lockdown, in un pomeriggio di fine marzo, quella voce arrocchita si è insinuata di nuovo nel nostro presente e aveva una visione da raccontarci il cui protagonista era un presidente americano assassinato. Il primo inedito dopo tanti anni era “Murder most foul”, un pezzo di diciassette minuti e il suo primo singolo al numero uno nella classifica dei singoli di Billboard.

Sembrava un brano a sé, invece annunciava un album intero. E che album. “Rough and Rowdy Ways” non tradisce l’impianto sonoro del Dylan più recente, anche se il tipico sound Americana degli ultimi anni è rinfrescato qui e là da veri tocchi di classe: ad esempio la fisarmonica in “Key West”, o “La barcarola” di Offenbach che tiene il passo di “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You”. Sono questi due gli episodi migliori, insieme a “My Own Version of You”. Era da tempo immemore che non ascoltavo un Dylan di tale portata, forse dal 1997 con l’album “Time Out Of Mind”.

Al centro del disco, come in tutto l’ultimo periodo dylaniano, c’è dunque l’America, i suoi miti, i suoi autori, la sua musica. E se si può riconoscere una chiave coerente in “Rough and Rowdy Ways”, questa è sovente un gusto postmoderno per la citazione, il pastiche, per il riferimento più o meno criptico, per il disseminare le canzoni di riferimenti ad altre canzoni, a libri, a fatti di cronaca…Ogni verso, ogni blues, ogni citazione apre porte verso altra musica, altra letteratura, altra poesia.

La carezza melodica di “I Contain Multitudes” potrebbe venire da qualche vecchio standard, ma gli arpeggi che la accompagnano hanno la sobrietà notturna delle ballate di “Oh Mercy”. Dylan cita Whitman per giocare con il mito del suo stesso enigma: “I’m a man of contradictions, I’m a man of many moods/ I contain multitudes”. Chi altri potrebbe paragonarsi impunemente ad Anna Frank, Indiana Jones e i Rolling Stones nello spazio della stessa strofa? I suoi riferimenti sono come sempre un labirinto di ipertesti. Il riff di “False Prophet” non lo abbiamo già sentito in “If Lovin’ Is Believing” di Billy “The Kid” Emerson? Il titolo dell’album non ricorda quello di una vecchia canzone di Jimmie Rodgers? Per non parlare di messer Shakespeare, che si profila in controluce in una moltitudine di versi, a partire dal titolo amletico di “Murder Most Foul”. “Black Rider” è una ballata tetra e scheletrica, aggrappata a un mandolino che le conferisce un aspetto coheniano. Ha nove canzoni e 71 minuti di durata (ma l’ultima, “Murder Most Foul”, dura 17 minuti e si riserva l’onore di un secondo CD tutto per sé). Alterna lente ballate e chiassosi blues elettrici, il tutto concluso, prima che inizi “Murder Most Foul”, da una meditazione ironico-paradisiaca di nove minuti e mezzo, “Key West (Philosopher Pirate)” non diversamente da come “Highlands”, altra meditazione paradisiaca di dieci minuti, concludeva “Time Out of Mind”.

La lezione del Tin Pan Alley si fa sentire soprattutto nella grazia minimale degli arrangiamenti. Difficile individuare, accanto alla solita live band, il contributo di ospiti d’onore come Fiona Apple, Blake Mills e Benmont Tench degli Heartbreakers. Ma è proprio la sua aura rarefatta, la sua essenzialità, a fare di “Rough And Rowdy Ways” il capitolo più prezioso dell’ultimo ventennio dylaniano. Ciò che ho apprezzato in questo album è l’eredità dell’uso della voce, meno gracchiante e molto più curata, mutuata dagli ultimi dischi di cover, vocalità cosi particolare e spesso diversa nelle varie fasi della carriera, ma che è sempre fonte di fascino.

Che altro aggiungere che non sia mai stato detto, credo niente. Rimane un disco da ascoltare più e più volte per scoprire ogni singolo dettaglio che si insinua nelle liriche e godere della musica che l’autore più importante ed influente del Novecento ha voluto donarci a settantanove anni compiuti!!!


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