L’incontro con i Bark Psychosis avvenne in una giornata di febbraio del 1994 quando un cliente, che è anche amico, mi chiese se avessi il disco ‘Hex’ di cui aveva letto mirabilie sulla stampa inglese. In particolare si riferiva ad una recensione letta sul mensile Mojo ad opera di Simon Reynolds in cui usava un termine che lo aveva colpito: post-rock, ovverosia un gruppo che usava una strumentazione rock ma in modo che rimandasse ad altre musiche. L’album non lo avevo, non era ancora arrivato in Italia, ma cominciai ad informarmi perché la descrizione mi aveva assai incuriosito. Scoprii così che la band era formata da Graham Sutton (canto e chitarre) e Daniel Gish (tastiere), che nel 1990 avevano pubblicato due singoli estesi ‘All Different Things’ e ‘Nothing Feels’. Applicavano alla psichedelia la sperimentazione elettronica in cui i pezzi venivano dilatati all’infinito grazie ai tape loops. Di loro si persero le tracce per circa due anni, fino alla pubblicazione di altri tre singoli ,’ Manman’, ‘Scum’ un brano di ben ventun minuti e ‘A Street Scene’, in cui ancora ci avvolgono in carezzevoli atmosfere oniriche. Finalmente, alcune settimane dopo, vengo in possesso dell’opera dei nostri: ‘Hex’ è un lavoro innovativo, complesso e difficilmente definibile, suoni, rumori e silenzi si alternano guidandoci in un luogo incantato. L’apertura è affidata a ‘The Loom’, con rintocchi classicheggianti di pianoforte a cui si affianca una voce opaca e alla ricerca di identità. Poi entra in gioco l’elettronica con i suoi ritmi funk. Ci sovvengono gli scenari più celestiali dei Talk Talk di ‘Laughing Stock’, un altro richiamo è quello dei My Bloody Valentine, soprattutto nei momenti più rumoristici. I Bark Psychosis aggiungono però una propensione al jazz e alla musica ambient che estende i brani in lunghe jam strumentali che sono sempre fluide e non presentano elementi di discontinuità. Ciò che si ascolta non è come può sembrare, il suono degli strumenti impiegati (vibrafoni, trombe, flauti e gli archi del Duke String Quartet), è digitalmente processato dal campionatore che lo fa uscire leggermente modificato. Il gruppo si ritirò per settimane nella cripta della Saint John’s Church per ricavar cinquanta minuti di musica. Si ricorda una malinconica ‘Absent Friend’ e la notturna ‘Big Shot’ con venature funk e un basso dub che si fa largo nella bruma della campagna britannica. Il capolavoro è però ‘Fingerspit’, un blend di minimalismo e rumore, romanticismo e ribellione. Il disco si chiude con ‘Pendulum Man’, brano strumentale di quasi dieci minuti, riverberi di piano e chitarre sono un tutt’uno con i fruscii spaziali delle tastiere e vanno a comporre un paesaggio sonoro di serena contemplazione. Un lavoro da fare vostro per le serate autunnali a cui andremo incontro.

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