Compositrice, clarinettista, cantante e divinatrice spiritual jazz, Angel Bat Dawid discende dalla scena jazz e di improvvisazione di Chicago. In pochissimo tempo, la potenza, personalità, lo spirito e il carisma della sua cosmica proposta musicale l’ha portata dall’anonimato ai massimi livelli dell’avant‐guardismo della Wind City.
Ogni sera non era difficile trovare Angel in ensemble guidati da Ben LaMar Gay, o Damon Locks, o Jaimie Branch, o perfino, una sera d’estate del 2018, sul palco in uno spettacolare duo con Roscoe Mitchell. Per il suo debutto su International Anthem, “The Oracle”, sono state selezionate delle tracce che Angel ha creato totalmente da sola – suonando, sovraincidendo e missando tutti gli strumenti e le voci in perfetta solitudine – registrandole su cellulare in diverse location, da Londra a Cape Town, ma per la maggior parte nella sua residenza a Bronzeville, Chicago.
Dopo l’acclamato successo di pubblico e critica in seguito all’uscita – in solo formato musicassetta – di “The Oracle” nel febbraio 2019, l’album viene reso finalmente disponibile anche in formato CD e vinile.
Per fan di Sun Ra, Alice Coltrane, Ben LaMar Gay, Art Ensemble of Chicago, Onyx Collective, Standing on the Corner, Portishead, Jaimie Branch.
Angel Bat Dawid è qualcosa di simile a ciò che negli ultimi anni è stata per il sax Matana Roberts, come lei afroamericana e chicagoana. La sua è un’arte dolcemente contrastata: da una parte c’è il tuffarsi nella spiritualità e consapevolezza nera che è di artisti quali Gil Scott-Heron e Lonnie Holley, dall’altra essere illuminata dalla creatività “Black” che è tipica della città di provenienza della nostra assorbendo dalla   ricchissima scena avant-jazz locale e accompagnando, tra gli altri, un altro scatenato visionario come Ben LaMar Gay (autore, lo scorso anno, di un notevolissimo debutto di cui si è parlato troppo poco).
Una personalità unica, insomma, ma che sa misurarsi con un’eclettica gamma di soluzioni. “Destination” è un requiem per il compianto Yusef Lateef, declamato in una stanza riverberata e massaggiato da uno scarno piano elettrico. Le tastiere sono protagoniste su “What Shall I Tell My Children Who Are Black”, dedicata all’artista Margaret Taylor-Burroughs, performance vocale da brividi.
I 15 minuti di “Capetown”, con ospite il batterista sudafricano Asher Simiso Gamedze, sono a metà tra Albert Ayler e i Last Poets, mentre la title track è un blues pianistico solennemente sguaiato, annegato in un pianto catartico che è magnifica conclusione per un’opera sempre sul punto di lasciarti con una sensazione di gioia e malinconia, sempre sul punto di farti sgorgare le lacrime tanto è intenso il sonoro che ci si para innanzi.
Un altro bersaglio colpito dalla International Anthem ormai rifugio sicuro per gli sperimentatori dell’Illinois (Rob Mazurek, Makaya McCraven, Jeff Parker tra gli ultimi, soddisfattissimi clienti)!!!


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