LITTLE FREDDIE KING- “Jaw Jackin’ Blues”Prodotto dal batterista storico della sua band Wacko Wade, “Jaw Jackin’ Blues” mette in musica i racconti di vita di Little Freddie King (vero nome Fread Eugene Martin), settantanovenne pioniere del country blues e uno dei pochi esponenti ancora in attività del genere, che dal leggendario Freddie King (per cui ha suonato il basso) ha mutuato lo stile chitarristico sviluppando tuttavia una cifra espressiva originale. I testi dell’artista del Mississippi raccontano storie vere di vita on the road a base di musica e alcol su un tappeto di ritmi pulsanti e di blues elettrico: stile da juke joint, sporco e genuino, che condensa al meglio la ruvida e autentica personalità artistica di una figura diventata leggendaria, cittadino onorario di New Orleans dove si trasferì giovanissimo e in cui ha acquisito uno status di culto.

Questo nuovo lavoro vede il nostro influenzato dagli esperimenti sonori che sono stati di gruppi e solisti quali North Mississippi Allstars e Gary Clark Jr. rispettivamente. Il motivo è forse da ricercare nell’obiettivo che si è prefissato il buon Martin, cioè quello di andare ad interessare un pubblico ampio e il più giovane possibile. C’è una visione distorta del blues, un blend in equilibrio tra strumentali e ricordi funk, tra atmosfere ricche di eccitazione e sovraccarico di ritmiche che non danno tregua. È un sound che si abbevera ad una cultura ‘black’ a più ampio raggio, con l’utilizzo di un numero consistente di linguaggi: il jazz, il funk, il rap che insieme raccontano di un valore inalienabile per la cultura americana, la ‘libertà’.

Il lavoro prende il via con “Bucket the blood” in cui il produttore cerca di porre in risalto le parole di Little Freddie, gli distorce la voce modificandola su frequenze imperfette in un mix di ruvide scosse elettriche. “Bollywood Freddie” mette in mostra una commistione tra ‘clap’ ed elettronica che ci conduce in una dimensione lisergica in grado di creare un clima di agitazione che non è difficile associare a quello politico attuale. Stessa situazione che si viene a creare durante “Dig me Part 2” con l’inquietudine data dai tempi ipnotici.

Un disco ricco di adrenalina, pulsante, da bere in un sorso solo come un bel cocktail fresco durante una serata torrida. Ascoltate i ritmi di “Messin’ around Part 2”, i riff che definiscono il southern funk stordente di “Crack ho flow”. E quando arriva la ballad si rimane a bocca aperta tra i passaggi acustici ed elettrici che aprono a paesaggi in cui sembra di odorare i profumi delle terre al nord del Mississippi. Il sax incandescente di “Trip to Detroit” ci spalanca il bayou sound della ‘Big Easy’.

Siamo dinnanzi ad un album vero, non accademico, ma che esprime le istanze del momento come fecero altri dischi di blues in epoche differenti. Per apprezzarlo bisogna essere pronti al suo ecclettismo sonoro, e se a darlo alla luce è un vecchietto di ottant’anni incapace di essere ipocrita è un motivo in più per non lasciarselo sfuggire. Ricco di passione e senza presunzione!!!


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