“The Last Exit” è il quinto disco del duo britannico Still Corners, formato da Tessa Murray e Greg Hughes. A due anni di distanza dal piacevolissimo “Slow Air”, i due musicisti tornano con undici nuovi brani che appaiono come un elegante mix di indie-rock, shoegaze e synth pop; un sound cinematico, colto e dalla struttura ricercata, che con i suoi ritmi galoppanti e le chitarre dai toni argentei conduce verso una destinazione sconosciuta.
In apertura di “The Last Exit”, la title track chiude una trilogia tematicamente legata a ‘road track’ che abbraccia gli ultimi tre album degli Still Corners. Tutti e tre rappresentano i rispettivi record in microcosmo; “The Trip”, come tanto di ”Strange Pleasures” del 2013, aveva chitarra e synth che funzionavano profumatamente in tandem arioso, mentre “The Message” era un affare del tutto stonato, con la chitarra slide che lavorava e la voce di Tessa Murray improvvisamente fumosa – entrambi tratti distintivi dell’ultimo album del duo, “Slow Air”.
Se il nuovo disco fosse un road movie, sarebbe “Paris, Texas”; questo è allo stesso tempo sia l’album più tranquillo degli Still Corners e il loro più densamente atmosferico, troppo. La tavolozza strumentale, abbinata alla voce sempre più spettrale di Tessa, invita ad un confronto immediato con Mazzy Star – sintetizzatori di buon gusto e scintillanti, lavoro di chitarra languida, percussioni morbide.
Appoggiandosi più pesantemente alle loro influenze che mai, però, sembra stranamente aver liberato il duo, come se scegliendo di essere più referenziali che sperimentali, fossero stati in grado di realizzare il loro album più coeso e ricco di sfumature dai tempi di “Strange Pleasures”.
In alcuni punti, possono essere un po’ troppo sul naso – “Till We Meet Again”, per esempio, ha letteralmente un po’ di ‘etereo sibilo Lynchiano che fischia in sottofondo per gran parte di esso, almeno prima di un assolo di chitarra a ruota libera che salva i procedimenti – ma “The Last Exit” è in gran parte degno dei punti di contatto culturali a cui annuisce con tanto orgoglio.
Non sempre riescono a centrare il bersaglio, il minimale blues-rock “It’s Voodoo” manca di scintilla che possa coinvolgere l’ascoltatore, mentre “Mystery Road” con i suoi toni gotici sembra essere alquanto banale. Dove, invece, il legame con il passato rimane saldo si assiste ai momenti migliori dell’opera, come accade in “White Sands” con la sua atmosfera ipnotica e pulsante. “Crying” è ancora più intrigante grazie ad un uso twangy della sei corde e al ‘fischio’ che non può non ricordarci famosi temi morriconiani.
In definitiva tanta carne al fuoco, non sempre ‘in bolla’, ma che saprà catturare tante anime legate al tema del viaggio notturno lungo le immense strade americane!!!
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