Ed eccomi ad andare contro le mie prese di posizione cioè non recensire mostri sacri della musica che amo. L’eccezione alla regola però si chiama Van Morrison, un artista che ho adorato e seguito nella sua lunga discografia fino alla fine degli anni novanta. Poi è accaduto, durante un concerto, che il suo atteggiamento mi disturbasse a tal punto che non sono più andato a vedere una sua esibizione live e gli ascolti dei dischi nuovi furono fatti un po’ così, direi quasi superficialmente.
Devo dire che la strada intrapresa dal rosso irlandese non mi soddisfaceva per niente. La musica che fuoriusciva dai solchi dei suoi dischi era un jazz swingante e, a mio parere, piuttosto all’acqua di rose, abbastanza leggero e privo di feeling. Questa caratteristica si scontrava con tutte le sue opere, più o meno riuscite, di trent’anni di attività in cui il feeling e l’interpretazione erano la sua cifra stilistica principale. Quanto sono lontani i tempi in cui difendevo a spada tratta Van “The Man” dagli attacchi dei detrattori, che sostenevano che il nostro non sapesse cantare e che nella sua vita avesse scritto un’unica canzone e che per fare un album nuovo tagliasse un po’ di nastro ed il gioco era fatto. Nel corso del nuovo secolo nessun suo lavoro mi ha ammaliato, non posso dire che si trattasse di brutti dischi, ma di album leggeri e privi di mordente.
È di questi giorni l’uscita di “The prophet speaks”, il quarto album in due anni, e, come i precedenti, si tratta di un blend di rock, soul, blues and jazz. Anche in questa occasione è accompagnato da Joey DeFrancesco, organo, piano e tromba, da Troy Roberts contrabbasso e sax tenore e soprano, da Dan Wilson alla sei corde e da Michael Ode alla batteria. È stato registrato a Sausalito, masterizzato e mixato a Sebastopol sempre in California. Contiene sei nuove composizione su un totale di quattordici pezzi.
Posso affermare che il nostro irlandese non è mai stato così prolifico, tenendo conto che ha settantatre primavere alle spalle. Ci si chiede cosa possa averlo spinto ad incidere così tanto in questo periodo. Forse è un modo per esorcizzare una recente vita costellata da eventi dolorosi oppure per una forma di nostalgia delle sue influenze primarie, dall’adorata Belfast alla musica americana.
Sam Cooke, Solomon Burke, John Lee Hooker, JD Harris, Willie Dixon, Muddy Waters, etc.. tutte e otto le cover del disco (più sei originali morrisoniani) sono interpretate con indubbia passione e il gusto che lo ha sempre contraddistinto. Blues, jazz, soul, accenni gospel, le influenze primarie di Van hanno una palese matrice black ma da sole non possono rappresentare l’arte maggiore per cui l’irlandese verrà ricordato, che ovviamente comprende quegli elementi folk non certo secondari, assimilati al tempo, da icone come Lead Belly, Hank Williams o Bob Dylan, ma che in questi ultimi quattro dischi sono usati davvero col contagocce pur rappresentando, non a caso, la parte più emozionante e personale. Pur di fronte ad interpretazioni di alto livello, tutte queste cover di blues alla fine sfigurano un po’ di fronte agli originali dell’ultimo album di soli pezzi autografi quale fu “Keep Me Singing”. Anche in questa occasione i brani migliori sono quelli che provengono dalla sua penna. Tra questi il miglior blues del lavoro, ovvero la magnetica “Ain`t Gonna Moan No More”, dove Van cita le sue influenze musicali in un testo che sembra lasciarsi dietro un passato tormentato. È un lento che si snoda tra organo, tromba, sax, ed armonica, strumenti che sembrano quasi sfidarsi per avere il sopravvento.
La title track parla di un profeta che viene ascoltato solo da chi possiede orecchie allenate per poter comprendere il suo messaggio. Musicalmente si tratta di uno stupendo blues atmosferico vagamente jazzato, ma che in sottofondo viene impreziosito da arpeggi di chitarra acustica vagamente spagnoleggianti. Arrangiamenti superbi, con tromba ed armonica che vanno a dipingere la chiusura del brano.
Il capolavoro del disco è, per quanto mi riguarda, “Spirit Will Provide”, una ballata pianistica che apre il cuore. Van non improvvisa mai, tutto viene dalle sue conoscenze approfondite in campo musicale, dalle sue esperienze culturali e personali. La voce sa ancora incantare, mentre la figlia Shana da un tocco di calore al refrain. Un brano che entrerà tra gli indimenticabili.
Un’opera che non aggiunge nulla di quello che sappiano di Morrison, ma ancora in grado di allietare queste fredde serate invernali!!!


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