THEY HATE CHANGE – ‘Finally New’ cover album‘Penso che a questo punto ci definiamo definitivamente anglofili’, ha detto Vonne, una metà del duo hip hop sovversivo di Tampa, They Hate Change, in un’intervista con L&Q l’anno scorso e, come per illustrare il loro punto, poi ha vacillato nomi di influenze dal ‘suono grezzo’ da Novelist a Brian Eno, India Jordan e happy hardcore. Questo entusiasmo contagioso alimenta la loro stessa musica meno di quanto non ne sia la linfa vitale, ed è stato sufficiente a far girare la testa a Jagjaguwar; “Finally New” è il debutto della coppia per la leggendaria etichetta.

Da dove cominciare con un disco così allegramente diffuso? È importante affermare che, per quanto amorfe siano le loro ispirazioni evidentemente capiscono l’importanza della coerenza; il lavoro scorre magnificamente, in modo tale che quando, diciamo, i breakbeat vengono introdotti in “Reversible Keys” all’inizio, pochi minuti dopo lo shuffle di batteria e basso di “Who Next?”, o quando il sintetizzatore luccicante in “Little Brother” poi si inserisce direttamente in “Some Days I Hate My Voice”, con un’inflessione horror-core, in cui danno il nome a Poly Styrene, è difficile immaginare un ascoltatore che batte le palpebre: tutto si blocca insieme così agevolmente.

Nonostante tutti i loro discorsi sull’ossessione per il Regno Unito, nel frattempo, la verità è che nella raccolta sono radicati in un suono che sovverte sottilmente una ricca tradizione dell’hip hop alternativo statunitense; i primi Outkast incombono, così come Camp Lo, Digable Planets e Busdriver. La gioia non sta nell’esaminare questo disco effervescente con un pettine a denti fini, ma nel permettere all’influenza britannica – sonora e lirica – di rivelarsi gradualmente. Da questo punto di vista, questo è un album veramente sorprendente.

Vonne Parks dei THC e Andre Gainey autoproducono dischi rap da camera da letto con ritmi dance, creando dischi rimbalzanti e propulsivi con percussioni sincopate che balbettano e svolazzano. Non sono certamente i primi artisti all’incrocio tra rap e musica dance elettronica, ma sono riusciti in qualche modo a sintetizzare il dialogo tra la Florida e il Regno Unito, aggiungendo una spavalderia hip-hop del sud che scansiona più scuole d’arte di Magic City. Molti dei riferimenti saranno intimamente familiari a un certo sottoinsieme di abitanti del club; l’unica traccia strumentale dell’album “Perm” è la loro versione di un record Schematic, un’etichetta di Miami ossessionata dall’IDM che ha colmato il divario tra i suoni pesanti e statici di Boards of Canada e Autechre e il ‘ghetto bass’ che stava conquistando il sud della Florida.

Le parti più divertenti di “Finally, New” sono decisamente floridiane: i Miami Bass schiaffeggiano e accennano ai vari sottostili che sono spuntati a Tampa. Ci sono accenni alle leggende dello scherzo Tom G e Khia, che hanno avuto il più grande successo del sottogenere nel 2002 con “My Neck, My Back”, e ancora una volta campionano l’iconico hook “Come on baby…” dal classico jam di basso. E mentre hanno prodotto il disco da soli, sono riusciti a trovare uno spirito affine in Nick León, un produttore di Miami che si è anche ritagliato spazio all’incrocio tra musica da club europea e rap su album solisti e primi brani con Denzel Curry. León contribuisce alla co-produzione delle tracce finali del disco (“X-Ray Spex” e “From the Floor”), mandando il lavoro fuori in un vortice di rullanti svolazzanti che deve tanto al gioco di gambe di Chicago quanto il basso a Bristol.

Un approccio alla materia veramente ricco di fantasia e leggermente ‘sballato’, forse per questo è stato pubblicato dai tipi della Jagjaguwar, normalmente impegnati con cose indie quali Bon Iver e Sharon Van Etten!!!


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