Autunno 1982. Entro nel negozio di dischi preferito della mia città e la mia attenzione vira su due copertine di LP, Gun Club ‘Miami’ e The Dream Syndicate ‘The Days Of Wine And Roses’. Entrambe le formazioni erano da me totalmente sconosciute. Una volta a casa misi sul piatto il disco del Sindacato del Sogno, e rimasi folgorato. L’album, il cui titolo omaggiava l’omonimo film di Blake Edwards, riportava l’attenzione al suono psichedelico anni Sessanta ma aggiornato all’era post-punk. Il gruppo ha sempre avuto una figura cardine, Steve Wynn, diversi chitarristi e tanti produttori che ne hanno caratterizzato le varie produzioni. Il secondo album, ‘The Medicine Show’, fu prodotto da Sandy Pearlman e fu pubblicato da una major, la A&M. Rispetto al precedente, fu fatto un notevole lavoro di pulizia del suono e fu aggiunto un pianista, Tommy Zvoncheck, che aveva suonato anche con i Blue Oyster Cult. Il successivo fu prodotto dal nuovo chitarrista, Paul B. Cutler, e gli arrangiamenti sembrano risultare più radiofonici con una ballata, ‘Boston’, che divenne un momento cardine durante i loro concerti. L’ultimo album di materiale inedito uscì nel 1988 e fu prodotto da Elliott Mazer. ‘Ghost Stories’ tornava ad un rock più sanguigno che riportava ad un’urgenza chitarristica alla Neil Young. ‘Live at the Raji’s’ uscì postumo e ci presentava l’ultimo concerto della band ed è a mio avviso uno stupendo disco dal vivo. Ebbi la fortuna di vederli a Correggio durante la tournée di ‘Out of the Grey’. Fu una serata magnifica sotto una pioggia insistente, ricordo ancora una versione travolgente di ‘John Coltrane Stereo Blues’ in cui Wynn ruppe una corda della chitarra ma continuò a suonare come in preda al demonio. Li rividi tre anni fa in occasione delle celebrazioni del trentennale di ‘The Medicine Show’, in cui ancora una volta dimostrarono cosa vuol dire suonare rock, cioè salire sul palco e dare tutto se stessi senza alcun artifizio. Non avrei mai immaginato di trovarmi ora a parlare di un nuovo disco, che non aggiunge nulla di nuovo ma che si lascia ascoltare con grande piacere. Potremmo partire dal brano omonimo di oltre undici minuti tra psichedelia e jazz, quasi una versione aggiornata di ‘John Coltrane Stereo Blues’; una splendida road song come ’80 West’ con le distorsioni che ci accompagnano lungo il percorso immaginario di un paesaggio sempre uguale a se stesso. Si alternano, soprattutto all’inizio, pezzi tirati ed acidi che poi sfociano, in conclusione dell’album, su ballate più oniriche e psichedeliche, soprattutto nella chiusura di ‘Kendra’s Dream’, in cui chitarre sature ed abbaglianti fanno da sfondo alla voce della Smith, che è proprio quello che avremmo voluto ascoltare. Sono tornati, come oltre trent’anni fa, con le chitarre in primo piano in un periodo in cui, come allora, le sei corde sembrano diventate un reperto bellico.

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