Credo che per la maggior parte degli ascoltatori il nome di Sam Prekop sia associato ai The Sea and Cake, di cui è cantante e chitarrista, assieme all’altro chitarrista Archer Prewitt e a un batterista come minimo seminale per la scena chicagoana dei 90s e oltre come John McEntire. Il gruppo di Chicago è stato, a tratti, eccellente band indie rock, più sofisticata della media. Dal tardo post-rock ne sono uscite di proposte musicali del genere, ibridi sonori gradevoli, stilisticamente intriganti ma tutto sommato innocui, forse per compensare lo spaesamento formale e le brume apocalittiche disseminate a cavallo tra vecchio e nuovo secolo. Da questo punto di vista, i The Sea And Cake sono stati persino dei precursori, con il loro tropicalismo radente e gli sfarinamenti jazz a innervare canzoni che non facevano nulla per mettere in discussione il concetto di forma-canzone, mentre le band intorno ad essi (metà dei 90s) s’impegnavano a sgretolare in vari modi le strutture consuete.
Lo scorso 21 agosto è uscito il nuovo album di Sam dal titolo “Comma” su Thrill Jockey e descritto nella press release come «il moderno album minimal pop dell’artista londinese di nascita che attinge al patrimonio sperimentale del sintetizzatore, collocandosi nella tradizione di pionieri della musica elettronica come Brian Eno e Yellow Magic Orchestra, che hanno unito la sfrenata avanguardia con l’immediatezza e l’accessibilità del pop». I suoi primi dischi solisti erano particolarmente gradevoli, dotati di classe e intuizione, ma in seguito il nostro eroe è andato in fissa per i synth modulari e, da quel giorno, diverse cose sono cambiate, non tanto per la scelta dello strumento quanto, piuttosto, per un progressivo smarrimento del talento.
Il caso di Prekop – classe ‘64, londinese ma chicagoano d’adozione – è abbastanza curioso, perché ha messo in mostra più avanti, da solista, quanto le sue reali inclinazioni tendessero a smentire la comfort zone sonora, e assieme a questa la classica figura del chitarrista/cantante/autore. Se l’esordio a proprio nome del 1999 esasperava la vena bossa e jazz, parzialmente confermata da “Who’s Your New Professor” (2005), già “Old Punch Card” (2010) introduceva una svolta copernicana in senso sintetico, ribadita dal già citato “The Republic” (2015). Fatto caso alle date di pubblicazione? In pratica un disco ogni cinque anni: c’è del metodo in quest’uomo. Che pare essersi definitivamente votato alla causa dei sintetizzatori modulari, alla base anche del nuovo “Comma”, dieci tracce strumentali in stile ambient con echi di sguardo espanso kraut, retaggi palpabili di serialità e minimalismo, probabili tracce della synth-wave più atmosferica e alcune affinità con certe visioni pastello allestite in casa Warp.
Si ascolta un po’ di tutto in questa nuova fatica: ambient ricca (“Park line”), reminiscenze dei Cluster (“Circle line”), tentativi che rimandano a William Basinski (“September remember”), pop alla Vangelis (“Summer places”), momenti di lieve malinconia (“The new last”), sonorità che rimandano ai Kraftwerk (“Approaching”).
Un album di sublime inconsistenza, capace di apparire effimero e sostanziale contemporaneamente, potrebbe piacere oppure suscitare ribrezzo. A voi scegliere da che parte stare!!!
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