Mi sono interessato a questo gruppo non appena letta l’etichetta che lo ha pubblicato, la Paradise of Bachelors.
Da alcuni anni cerco di non farmi sfuggire alcuna pubblicazione di questa casa discografica situata nel North Carolina, che coniuga all’interno del proprio roster musiche che riescono a farmi vibrare durante gli ascolti.
Autori come Nathan Bowles, Mike Cooper, Steve Gunn, Promised Land Sound fanno, oppure, hanno fatto parte di questa label.
Ho tra le mani il dischetto dei Red River Dialect e mi accorgo, con disappunto, che non si tratta di un esordio, ma della loro terza pubblicazione anche se la prima per i tipi della Paradise.
Si tratta di un gruppo britannico, della Cornovaglia per la precisione, che si dedica ad un melodico neo-folk che rimanda per certi aspetti alla miglior stagione dei Fairport Convention, ma anche al periodo irlandese di “Fisherman’s blues” dei magnetici Waterboys.
Il loro primo album uscì nel 2012 e si intitola “Awelluponttheway” e ci dà conto di una band che esprime tutto ciò che di bello, straziante e selvaggio si percepisce di quella costa da cui provengono.
Il leader della formazione è David Morris un musicista fortemente appassionato, non solo del folk anglo-scoto-irlandese, ma anche del miglior folk-rock psichedelico statunitense avvicinandosi così a gruppi quali Hush Arbors, Arbouretum e Hiss Golden Messengers.
Nel corso degli anni i Red River Dialect sono maturati e cresciuti sia compositivamente che strumentalmente.
La nuova fatica introduce una sezione ritmica ed una ritrovata dimensione elettrica rispetto al precedente “Tender gold and gentle blue”. Le canzoni si sviluppano lentamente per cui la durata media dei brani si attesta sui sei minuti. Sono solo sette le composizioni presenti, ma credo sufficienti a dispiegare la spontaneità di un folk lontano dalla ribalta mediatica.
Gli arrangiamenti mettono in luce un aspetto percussivo più presente ed anche accorgimenti in termini di effetti ed overdub.
Ci sono momenti in cui si assiste ad impennate elettriche (“Gulf rock”), alti ci si lascia accarezzare da ballate sognanti (“Kukkuripa”), ma l’elemento folk non viene mai smarrito come in “Cinders”.
Il disco procede su queste coordinate, forse manca un’impennata che avrebbe potuto elevare il disco a prodotto imprescindibile, ma già così è sufficiente per farsi cullare.

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