“Thumb World” è il nuovo album dell’eccentrico Pictish Trail. Diversi i contributi esterni quali Rob Jones a masterizzazione e mixaggio, Kim Moore agli arrangiamenti d’archi, Alex Thomas (Squarepusher, Anna Calvi, Air) alla batteria, Swatpaz – ovvero l’artista scozzese Davey Ferguson – agli aspetti grafici e visivi.
Audace, strano, selvaggio, sonicamente lussuoso ma senza mai perdere il contatto con le sue radici lo-fi, “Thumb World” è un viaggio verso gli anelli esterni della mente di Johnny Lynch (vero nome del nostro) nella sua forma più oscura, più divertente e più inventiva. Ne risulta un album capace di mandare in tilt il nostro cervello grazie ad una commistione di pop psichedelico ed elettronica. La sua relazione come essere umano con le macchine digitali genera un misto di attrazione/repulsione, come se si trattasse della vita reale in contrapposizione con quella virtuale, creata per sfuggire alle pressioni, alle notizie che riempiono, negativamente, il quotidiano.
Tematiche e sonorità sono tutte ben esemplificate nel brano d’apertura, “Repet neverending”, in cui la presenza di un synth sinistro e di una ritmica in levare, capace di rendere ancora più soffocante il pezzo, conduce verso un momento che non sembra mai terminare fino all’arrivo della voce. Allora si assumono i contorni di una filastrocca che narra di una competizione nella quale non si giunge mai al traguardo, ma si è costretti a riviverla all’infinito.
Il pop elettro-acustico è particolarmente adatto per rendere esplicite le riflessioni sull’esistenza, sulle relazioni umane, sulla paura e sul doversi continuamente confrontare con sé stessi. Musicalmente lo realizza con sbarazzina brillantezza e sovrapposizione e stratificazione dei suoni. Alterna ballate su rapimenti alieni, metafora per affermare l’incapacità di prendersi responsabilità (“Slow memories”), ad allegre filastrocche (“Bad algebra”) in cui i numeri e le parole rappresentano la solitudine anche quando si è insieme agli altri. Divertente la manipolazione vocale che tratteggia “Lead ballons”, irresistibile il riff di “Fear anchor” capace poi di sprofondare nel contrasto tra batteria e una voce presa da una radio in bassa frequenza che mi ha ricordato cose dell’adorato Sparklehorse.
Il nostro ha perso forse in immediatezza, ma ha acquistato in termini di coraggio e bizzarria compositiva. Non mancano episodi più diretti e concisi, posti nella seconda metà del programma, ma ritengo che la cifra stilistica di questa opera risieda nello stupore che genera all’ascolto, comunque in grado di indurre alla riflessione!!!


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