Matthew Houck, aka Phosphorescent, è uno dei tanti cantautori uscito dagli Stati Uniti nel corso dell’ultimo ventennio. Il punto di partenza per tutti è sempre stata la tradizione musicale americana, portata al pubblico attraverso suoni scarni e lo-fi e con tematiche che erano più improntate ad una introspezione interiore che non ad un rivolgersi all’esterno, al sociale.
Poi quasi tutti hanno deciso di spostarsi verso suoni più accattivanti, che non disdegnavano utilizzo di elettronica, probabilmente per incontrare un maggior numero di favori da parte del pubblico.
Per anni l’ascesa di Phosphorescent è stata costante: i tour sono aumentati progressivamente e con essi le sale concerti. La musica è diventata più intricata, più ambiziosa e le registrazioni più curate. Poi è arrivato “Muchacho”, uno spartiacque letteralmente, capace di vendere fino ad oggi 100.000 copie, con il singolo “Song for Zula” capace di raggiungere oltre 50 milioni di visualizzazioni. Ora, cinque anni dopo, Phosphorescent torna con il suo settimo lavoro in studio, “C’est La Vie”. Registrato a Nashville presso lo studio Spirit Sound Sounds di Matthew.
Il nostro prosegue sulla via dei suoi due ultimi lavori in studio, dimostrando di essere in grado di rimanere alternativo, in ambito sonoro, nei confronti di una musica percepita mainstream come il country.
Forse qualcuno avrà, a ragione, di dissentire per un uso un po’ troppo insistito del Casio, ma non si può non convenire sul fatto che Houck sa scrivere tracce che si dividono tra momenti meditativi e di roboante bellezza, senza peraltro rinunciare a qualche accordo più penetrante ed incisivo.
Un disco che può rappresentare un punto di vista nuovo per rinverdire l’essenza stessa dell’Americana e capace di creare sensazioni che scavano nel profondo.


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