PERFUME GENIUS – ‘Ugly Season’ cover album‘Brutto’ è un termine gloriosamente carico, e, mentre ognuno può avere interpretazioni diverse di ciò che costituisce qualcosa (o qualcuno) come brutto, lo sappiamo tutti quando lo vediamo. Indecoroso, sgraziato. Orribile, grottesco o, nella sua forma più semplice, esteticamente sgradevole. Soprattutto per le persone queer, bruttezza e bellezza vanno di pari passo.

Michael Hadreas, in arte Perfume Genius, si appoggia alla sua stessa definizione di brutto con “Ugly Season”, offrendo il suo album più sperimentale, errante e meravigliosamente trasandato ad oggi. Con una durata di oltre 52 minuti con appena dieci tracce, è il suo disco più lungo e il suo panorama sonoro più esteso; non abbiamo mai sentito una serie di strumenti su un disco di Perfume Genius come questo prima d’ora.

Nella parte centrale, un riff di pianoforte jazz su “Scherzo” sanguina nei ritmi reggae minacciosi della title track, il tutto prima di sfociare in un esteso outro disco su “Eye in the Wall”. Sebbene la composizione di “Ugly Season” possa essere radicata nel pop, il suo atteggiamento nei confronti del genere è nella migliore delle ipotesi irriverente. Non si limita a piegare il genere; minaccia di romperlo a pezzi e di rimetterlo insieme.

Per queste e altre ragioni, il nuovo rilascio è un album brutto, almeno per gli standard della musica pop. Rinnegando una categoria distinta con cui possiamo definire il sesto sforzo in studio del cantante 40enne, Hadreas ci porta in un netto, anche se non del tutto sorprendente, allontanamento dal suo lavoro precedente.

Riff di chitarra alle stelle e sintetizzatori ardenti in abbondanza, i suoi dischi precedenti coprivano di tutto, dalla dipendenza e dall’abuso fisico al desiderio sensuale e queer, ma in “Ugly Season” smentisce le proprie contemplazioni più ironiche ed esteriori per un approccio liricamente indiretto. Nell’apertura, “Just a Room”, i testi scarsi sono gorgheggiati e decisamente elusivi mentre tuba: ‘Nessuno schema / Nessuna fioritura / dove ti sto portando’. È un messaggio ad un amante, a un sé passato, o forse agli stessi ascoltatori, un’anticipazione subdola della natura saltuaria del disco da seguire?

Michael ha sempre dimostrato di essere un paroliere e un compositore di talento, testardo e allo stesso tempo incredibilmente fragile, che sa raccontare storie piene di tragedia, teatralità e persino un pizzico di umorismo. Qui, però, sono sparite le sue auto-immolanti grida di solitudine. Ciò che prende il loro posto sono riflessioni enigmatiche sul dolore, brani che si gonfiano oltre gli otto minuti e arrangiamenti inquietanti cuciti insieme in un patchwork alla Frankenstein di armonie fantasmagoriche.

Lo sfacciato titolo “Pop Song” si basa su un ritmo scoppiettante di rintocchi mentre il nostro canticchia: ‘Il nostro corpo è allungato / E trattiene un respiro / E affina la trazione / E taglia la carne’ prima che la sua voce da tenore sia sottolineata dal basso di un’altra voce maschile per ripetere ‘Raccogli la fossa / E sputare il resto / Per sopportare il nostro dolore’. È la traccia più accessibile e probabilmente la più raccapricciante.

La disgiunzione del suono e la mancanza di una trama narrativa chiara creano una serie di emozioni da capogiro che, nelle mani di un artista e un team di produzione meno qualificati (che include il partner di lunga data Alan Wyffels, il produttore Blake Mills, e l’ingegnere Joseph Lorge, tra gli altri), si sarebbero contraddetti e, alla fine, annullati a vicenda. Ma quella confluenza di emozioni accatastate sopra, accanto e, a volte, lontane l’una dall’altra è proprio il punto.

Quello che scaturisce è un ritratto inconsueto del nostro, ma capace di sedurci come in passato e contenente un paio di pezzi sovrannaturali!!!


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