Se c’è un gruppo che, durante il proprio lungo percorso artistico, è riuscito a mischiare teatro d’avanguardia, rock’n’roll, punk, espressionismo e dada, questo è proprio Pere Ubu, da Cleveland, Ohio. Se c’è una formazione che è riuscita a cantare storie americane fatte di squallore, disperazione, fallimenti e composte da perdenti e disillusi, questa è sempre Pere Ubu di David Thomas. Una band irrequieta che ha visto tanti cambiamenti di formazione ma che è sempre ruotata intorno all’ingombrante figura di Thomas. Si parla di una delle più geniali band di tutta la storia della musica rock, nata dalle ceneri dei Rocket From The Tombs, in cui militavano anche futuri Dead Boys come Cheetah Chrome e Johnny Blitz.
I Pere Ubu nascono nel 1975 e presero il loro nome dalla storia del teatro, Ubu (da ‘Ubu Re’) è infatti una maschera inventata alla fine dell’Ottocento da Alfred Jarry, antesignano del movimento surrealista e del teatro dell’assurdo. Il combo ha una vita travagliata, e come già detto, vede cambiare musicisti in continuazione, ha collaborazioni con i Red Crayola (Mayo Thompson, il chitarrista, entrò in formazione), ne fece parte anche il grande batterista Anton Fier. Nel 1982 il gruppo si sciolse per poi riformarsi a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Non fu una reunion nostalgica in quanto dura tuttora ed è contrassegnata da una originale rivisitazione della forma canzone rock. La band è sicuramente legata al suo luogo di provenienza, Cleveland, città inquinata ed innaturale, i cui scenari saranno un marchio di fabbrica eterni ed indissolubili sul modo di fare musica di Thomas e dei suoi adepti. Oggi, a distanza di quarant’anni dall’esordio, hanno deciso di raccontare in ’20 Years In A Montana Missile Silo’, il trascorrere vent’anni in una struttura sotterranea destinata ad ospitare missili balistici, un luogo che sembra essere rassicurante, isolato e senza bisogno di nulla e nessuno. In poche parole, un posto in cui l’unico scopo è quello di sopravvivere. Il suono è una sinfonia tetra e claustrofobica, che sembra voler riportare i nostri verso l’esordio, un rock chitarristico e senza fronzoli, contaminato da un’elettronica analogica, oppure da un clarinetto dissonante, come nel brano d’apertura ‘Monkey Bizness’. I brani successivi sono tutto un alternarsi di pezzi rumorosi con riff metallici (‘Swampland’), blues ridotti all’osso (‘Howl’), le distorsioni di ‘Funk 49’, il tutto avvolto da un’atmosfera d’angoscia e malessere. Quando tutto ha fine, non è come una liberazione, ma la presa di coscienza di aver preso parte ad un rito eseguito da un gruppo che rimane incontaminato ed autentico nonostante i tanti anni trascorsi dall’esordio.

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