Gli Ought cominciano ad avere dei trascorsi importanti. Si sono formati a Montreal nel 2011 in uno spazio in cui le band provavano il proprio materiale sonoro.
Sono un gruppo che ha chiari riferimenti al post punk e, dato il luogo di provenienza, non potevano altro che firmare per la Constellation.
Hanno incisi due dischi per l’etichetta canadese, “More than any other day” nel 2014 e “Sun coming Down” nel luglio del 2015.
A mio avviso i due lavori non riuscivano a catturare la vera essenza del combo. Il loro suono era molto più newiorchese piuttosto che quello oscuro ed invernale che spesso caratterizza le incisioni che escono dall’Hotel2tango di Montreal.
Questa impressione è stata ulteriormente fortificata da “Saturday night” del 2017, prima uscita solista del cantante Tim Darcy che si cimentava con un disco molto più orientato verso il profilo canzone.
È di questi giorni l’uscita del nuovo sforzo dei nostri dal titolo “Room inside the world” che esce per i tipi della Merge Records, l’etichetta fondata dai Superchunk, che possiamo descrivere come il quartiere generale del suono indie-chitarristico che si produce oggigiorno negli U.S.A.
Le incisioni hanno avuto luogo presso il Rare Book Room di Brooklyn con il produttore Nicolas Vernhes (Deerhunter e Animal Collective).
Sono colpito dalla crescita del gruppo in termini di scrittura e di diversificazione dei suoni, anche grazie all’uso di nuovi strumenti quali piano, vibrafono, synth e drum machine.
La forza della formazione, nel passato, è sempre stata la voce di Tim, dal timbro decisamente nasale che può ricordare il Tom Verlaine giovane, ma essere debitrice, al contempo, del glam di Jarvis Cocker.
Gli Ought hanno spesso peccato e mostrato un po’ la corda nello scrivere brani che lasciassero il segno, ma oggi sembrano fare un deciso passo in avanti, soprattutto nella forma che sembra finalmente affrancarsi dai modelli precedenti.
“Into the sea” sembra un pezzo di post-rock per voce da crooner.
“Disgraced in America” e “Disaffection” sono in pieno stile Ought che conosciamo. “Desire” ci ricorda le ballate springhestiniane, mentre “Pieces wasted” è corroborata da chitarre affilate come rasoi.
Ottima l’atmosfera space di “Take everything” e l’inquietudine di fondo che permea “Alice”.
L’album esplora temi come l’identità, i rapporti e la sopravvivenza nel mondo odierno che sembra privilegiare le relazioni social piuttosto che quelle reali.
Non immediato, ma capace di spostare l’asticella verso un percorso più personale.

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