Fine settembre 2004, causa incidente sono costretto sulla sedia a rotelle per non sforzare la schiena. Il mio umore è nero, mi sento uno straccio non potendo andare in negozio e seguire la mia amata attività.
È proprio in questo periodo che viene alla luce il primo album di Micah P. Hinson dal titolo improbabile di “Micah P. Hinson and the Gospel of Progress”. Grazie a questo disco le mie giornate si rasserenano perché ascoltandolo capisco che ci sia qualcuno (Micah) che stia peggio di me.
La storia di Hinson sembra un romanzo in cui perdizione, amore, tossicodipendenze, depressione, prigione, redenzione e sfortune assortite convergono sulla figura del nostro cantautore, tutte in sequenza.
Fin dall’età di dodici anni Micah si interessa alla musica sia come compositore sia come strumentista in grado di suonare più strumenti. Vive in Texas, per la precisone Abilene. Della sua città pensava esattamente quello che ne aveva scritto Kerouac in “On The Road”: “perché diavolo qualcuno dovrebbe mai vivere qui?”.
Lui sembra un nerd senza speranze con le ragazze, quando ancora al College di Abilene conosce una modella di nome Melissa, di lui più grande, una ragazza stupenda che si interessa proprio a lui. Se ne innamora perdutamente e, assieme, abbandonano la cittadina senza alcun rimpianto. È l’inizio della fine.
Il prezzo da pagare era molto più alto di quanto Micah potesse credere: trascinato nella dipendenza, condannato per falsificazione di prescrizioni mediche, oppresso da una cupa depressione, Micah si è trovato ben presto alla deriva. “Dopo che tutti i soldi erano finiti, dopo che tutte le carte di credito si erano esaurite, dopo che la mia macchina era rimasta ferma e dopo che eravamo stati sfrattati dal nostro appartamento e non avevo più né amici né famiglia, lei ha deciso di lasciarmi ed andarsene”.
Il ritorno alla musica è una condizione imprescindibile per cercare di sedare tutti i tormenti che la sua anima deve sopportare. Viene notato da John-Mark Lapham, il tastierista del gruppo The Earlies, che lo aiuta negli arrangiamenti dei suoi brani dando loro una connotazione sonora stravagante per delle tracce che parlano di amori, perdite, patimenti e speranze che Hinson interpreta con la sua voce già inconfondibile. La voce, appunto, fu la caratteristica che mi colpì profondamente durante il periodo di cui vi ho detto all’inizio. Sembrava quella di una persona matura che avesse avuto a che fare con tutti i vizi più deleteri per la salute, invece era quella di un giovane ventitreenne che, però, portava tutto il peso del mondo sulle sue deboli spalle.
Da quel momento ha messo insieme un certo numero di dischi tutti con sigle diverse (Opera Circuit, Red Empire Orchestra, The Nothing e The Holy Strangers), ha assunto sembianze un po’ stravaganti con la sigaretta sempre in bocca utilizzando il bocchino ed occhiali sempre diversi e sopra le righe.
Ho avuto modo di ascoltare in anteprima il nuovo lavoro di Hinson, che si presenta con una sigla ancora differente e con un titolo lunghissimo, “ When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You”.
Ancora una volta siamo al cospetto di un ottimo album perché il nostro amato cantautore tanto è irregolare nella vita quanto rigoroso nello scrivere canzoni.
Questa opera risiede in due luoghi geografici distanti: il cammino dei pellegrini lungo la strada che conduce a Santiago de Compostela e le pianure a perdita d’occhio del Texas.
Il lavoro viene pensato a Santiago, di fronte alla statua di San Giacomo e dei 24 musicisti che lo circondano mentre stanno accordando i propri strumenti. Decide poi di trasferire il tutto nel natio Texas chiamando a raccolta musicisti di vecchia e nuova conoscenza per dare termine, in sole ventiquattro ore, alla nuova fatica.
Si parte con “I am looking for the truth, not a knife in the back” ballata lenta e diretta, ricca di fastidiosa elettricità con la voce che ci conduce verso luoghi sicuri in contrapposizione al suono. Sono già ipnotizzato all’ascolto e aspetto avidamente ciò che il disco saprà offrirmi.
Sono presenti due brani, “The sleep of the damned” e “Small spaces”, che rappresentano il pop nella testa di Hinson, un muro del suono di spectoriana memoria con campanelli e ritornelli e minutaggi dei pezzi ridotti.
Tutto il resto è rappresentato da ballate: possono ricordare quei cantautori irregolari del Texas (Townes Van Zandt), ma in realtà sono tutte attraversate da un andamento torbido che alterna strofe con passaggi strumentali di una qualità da lasciare a bocca aperta.
La chiusura è affidata ad un lungo pezzo di dieci minuti dal titolo “The skull of Christ” che riassume al meglio l’album. Inizia con ritmi circolari, rumori assortiti le voci di tre pastori alquanto stridenti in un crescendo di intensità che si placa poco oltre la metà quando le voci distorte raggiungono una pace interiore quasi paradisiaca. Micah manco canta in questo brano, ma dirige il suono come fosse un direttore d’orchestra.
Ancora una volta si materializza davanti a noi un’opera di grande intensità che vale la pena di vivere dalla prima all’ultima nota!!!


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