All’inizio della mia splendida avventura nel mondo musicale ero influenzabile da persone esterne per scegliere che dischi acquistare, per cui quasi tutto ciò che comprai proveniva dalla Gran Bretagna. Nel momento in cui cominciai a ragionare con la mia testa mi indirizzai verso sonorità di chiara espressione statunitense. Impazzivo per i grandi classici, ma anche per gruppi minori che, dalle mie parti, in pochi conoscevano. Attraverso l’ascolto continuo e costante di album cresceva la mia cultura e riuscivo ad addentrarmi in qualsiasi genere senza faticare a capire che cosa stessi ascoltando. Per un lungo periodo di tempo il fascino che proveniva dal sud degli Stati Uniti fece da colonna sonora alla mia esistenza.
Parlo di band il cui tratto caratteristico era quello di saper miscelare al meglio le componenti di rock, country, soul e blues. Ne feci una scorpacciata tale che arrivai alla fine degli anni novanta che mi sentivo come se avessi fatto un’indigestione. Per lungo tempo non ne volli più sapere.
Non fui particolarmente colpito dal ritorno di alcuni grandi vecchi, né da formazioni che nascevano una ventina di anni fa. Neanche la decantata Tedeschi-Trucks Band ha mai colpito nel segno.
Ormai ero certo che il momento magico di quella musica fosse passato, non più ripetibile. Poi, all’improvviso, eccomi entrare in contatto con la Marcus King Band e riprovare quelle emozioni di tanti e tanti anni prima.
Non riesco a capire che cosa abbia di particolare questo gruppo, eppure mi da vibrazioni che provavo quando scoprii i Lynyrd Skynyrd, la Marshall Tucker band, i mostruosi Little Feat e gli inarrivabili Allman Brothers Band.
I nostri sono un gruppo guidato da Marcus, un ragazzo ventiduenne che ha avuto la fortuna di entrare in contatto con la musica da sempre. Il nonno ed il padre erano valenti chitarristi. Il nonno suonava country & western e musica rock dei primordi, Chuck Berry per intenderci. Il padre con la propria omonima band si dilettava alla grande nel tenere un repertorio che raggruppava blues, rock sudista, Foghat e Wishbone Ash.
In casa vi era una notevole collezione di dischi di blues, per cui le basi a Marcus non sono mai mancate. Decise presto di smettere di ascoltare gli altri per focalizzarsi sul proprio suono e nella ricerca di uno stile personale.
King è considerato un grande chitarrista (la stampa americana gli ha attribuito il termine “The next great guitarist), ma è pure un valente cantante ed un ottimo compositore. La Marcus King Band è una formazione con un suono potente in cui i fiati danno quell’aspetto che li ricollega al soul, al gospel e al blues, mentre le chitarre ci riportano direttamente ai maestri del rock sudista.
Con l’uscita di “Carolina Confessions” i nostri si dimostrano i migliori per quanto riguarda band del sud degli Stati Uniti. Hanno raggiunto una maturità ed una capacità di scrittura che li pone ad un livello decisamente alto anche perché non si tratta di semplici imitatori, ma di musicisti con personalità forte e in grado di destreggiarsi con maestria nella materia scelta.
Il tratto distintivo che maggiormente risalta è la voce del leader capace di manovrarla con un tocco roco che lo pone sulla scia dei maestri afroamericani, ma anche di alcuni cantanti inglesi quali Rod Stewart e Joe Cocker. Questa caratteristica viene però innestata in un suono fortemente rock grazie alla strumentazione chitarra, basso, batteria e tastiere che solo i fiati sono in grado di pennellare di “Black” l’insieme. La produzione è affidata all’onnipresente Dave Cobb che riesce a miscelare al meglio i fiati con le chitarre, soprattutto la slide di Marcus.
I tanti concerti tenuti nel tempo tra il disco precedente ed il nuovo ha permesso ai ragazzi di amalgamarsi alla perfezione. Assistiamo ad una sezione ritmica che stantuffa come nella migliore tradizione del genere, le tastiere che pennellano di blues le canzoni, il sax e la tromba che lavorano in controtempo e King che da anima e corpo nell’utilizzo di chitarre (acustiche, slide, elettriche), nel canto e nella scrittura dei brani.
Si tratta di un lavoro che è accostabile ad un concept, il cui tema di fondo è quello dell’abbandono, della città natale delle proprie radici e degli affetti. Tutto questo è percepibile in “Homesick” una traccia su tempi medi in cui i fiati si contrappongono all’assolo melodico di chitarra, oppure in “Goodbye Carolina” che tocca il tema del suicidio di un amico attraverso una ballata acustica e di impianto folk che poi si lascia andare in un assolo di sei corde che ti spezza il cuore. Il tema della fine di una relazione è presente nell’unico brano non autografo “How long” che musicalmente viene reso da un R’n’B ad alto tasso adrenalinico.
Splendido il pezzo “Where i’m headed” dove chitarra acustica e fiati permettono alla voce di King di ergersi gran protagonista in una canzone che sembra coniugare Allman e Otis Redding.
Credo che fossero diversi anni che non mi emozionavo in questo modo all’ascolto di un disco di rock in cui chitarre, fiati e voce fossero così in simbiosi da far gridare al miracolo.
Non mancatelo per niente al mondo!!!

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