LYLE LOVETT- “Joshua Judges Ruth”Avere tanto tempo a disposizioni porta la testa a vagare tra i ricordi, le emozioni, gli ascolti. Il viaggio di oggi si ferma in una stazione che può essere considerata un ramo secco. Quanto tempo sarà trascorso dall’ultima volta che ho ascoltato un disco di Lyle Lovett? Ricordo di un disco live inserito nel lettore pochi anni fa, tre o quattro, ma un album in studio della sua discografia ufficiale credo siano passati almeno quindici anni!
Non importa, oggi è il suo turno, è il momento giusto per inserirlo nella rubrica “Ripeschiamoli”. Il lavoro scelto è “Joshua Judges Ruth”, raccolta uscita nel 1992 su etichetta MCA che si distacca dalla sua produzione precedente e che lo colloca un po’ al di fuori del genere country “from Nashville”, il suo discorso musicale ora è più vasto e stimolante per l’ascoltatore.
Procediamo con ordine, il nostro è un texano, ma quello che Lyle rappresenta è dotato di maggior classe rispetto allo standard classico. La sua notorietà è dovuta, principalmente, al suo veloce matrimonio con Julia Roberts, ma Lovett è musicista sopraffino, di ampie vedute, personaggio che riesce a spaziare da Austin a Mulberry Street (la New York più jazz). In una parola è un fuoriclasse sia a livello di scrittura che per gli arrangiamenti, la sua è musica bellissima e di rara intensità, niente a che vedere con una serie di songwriters, conterranei e non, di cui spesso si parla nelle riviste di settore.
In casa dell’artista texano abitano jazz, western swing e cantautorato di classe (Jackson Browne e Randy Newman), in tutti i suoi lavori, non li cito perché sono equivalenti, ci si può divertire scoprendo tanti piccoli particolari che ci portano nei più disparati ambiti.
In quest’opera non c’è solo la pigra e dolente poetica solitaria di un Townes Van Zandt e di un Guy Clark, ma pure un umorismo surreale che ricorda un po’ i film di Robert Altman (di cui è amico). Introduce il gospel e la church music a cominciare dal sublime coro a sei voci di “Church”, il gospel ed in generale la musica nera da chiesa sono l’anima di questo lavoro, il cui titolo fa riferimento al Vecchio Testamento.
Disco complesso (la produzione è di George Massenburg) con canzoni elaborate dal punto di vista delle melodie e degli arrangiamenti, ricco di sfumature, di pause, di riferimenti e citazioni, intriso di profondi umori sudisti. Il nostro si muove con eleganza e sensibilità tra splendide ballate rarefatte e crepuscolari (“She’s already made up her mind”, “North Dakota”), honky tonk blues polverosi come le strade del Texas (“I’ve been to Memphis”), jazz after midnight (“All my love is gone”) e country intriso di oscura umoralità (“Family reserve”).
Ma il punto più alto, la vetta inarrivabile si manifesta con “Church” e “Since the last time” ubriache di irrefrenabili umori gospel. Al disco partecipano Rickie Lee Jones in “North Dakota”, un pezzo scritto col ‘mitico’ Willis Alan Ramsey, Emmylou Harris oltre alla big band di Lovett.
In mezzo a tanto gospel, swing, blues, country e songwriting, il viaggio di Lyle Lovett sembra arrivato ad una meta. La sua musica e le sue liriche assemblano dentro una coreografìa sudista, le migliori anime della musica americana.
Non è un musicista qualunque, non si incide per una major come la MCA per così tanto tempo se non si è di un livello superiore. La sua musica è, per usare una definizione aggiornata ai nostri tempi, un country postmoderno in cui i testi non sono affatto secondari. Sono storie cinematografiche in bianco e nero. Parla di persone di famiglia, ragazze pallide, commesse, bambini grassi che fanno parte di un immaginario sfortunato, senza possibilità di essere redento, ma lo fa con ironia, a volte con amarezza latente.
Per me inarrivabile, non importa se non sarete d’accordo con questa mia affermazione!!!


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