È l’estate del 1976, ho iniziato ad acquistare dischi da poche settimane. Sono un assoluto novellino, conosco poco o nulla, mi lascio consigliare da un ragazzo più anziano di me di un paio d’anni che già possiede una discografia importante (un centinaio di pezzi…aaaahhhhaaaahhhh, non vi dico quanti ne abbia io ora!!!).
Io ne ho accumulati una ventina e già sono in difficoltà nella scelta, lui mi suggerisce i Led Zeppelin di cui non ho ancora nulla. Convinto dal suggerimento mi reco dal mio negoziante di fiducia che mi rifila il nuovo album, “Presence”, da poco uscito. Torno a casa tutto soddisfatto, metto il vinile sul piatto e…ciò che esce dalle casse non mi piace per niente, anzi mi fa ribrezzo.
Così iniziò il mio rapporto con il gruppo inglese. In seguito divennero una delle mie band favorite, ma solamente dopo un lungo periodo di ascolti ed approfondimenti.
Anche “Presence” assunse, nei miei giudizi, una valenza di gran lunga superiore rispetto al momento in cui ne feci la conoscenza e non concordo affatto con chi ne parla in termini di disco mal riuscito.
L’album in questione è il settimo della discografia del dirigibile e ha una genesi travagliata. Nell’estate del 1975 Robert Plant e famiglia furono coinvolti in un brutto incidente, le cui conseguenze furono l’annullamento della tournee di “Physical graffiti”.
Page considerò l’idea di dare vita ad un nuovo lavoro in studio, Plant aveva scritto dei testi durante il periodo di convalescenza. Il chitarrista lo raggiunse a Malibu e quando credette di essere in possesso di sufficiente materiale prenotò gli studi Musicland di Monaco di Baviera dove si unì anche la sezione ritmica.
È un album marcatamente rock’n’roll in cui Jones e Bonham hanno uno spazio compositivo assolutamente marginale, ma, di contro, uno esecutivo assolutamente a livelli siderali.
È un’opera scarna a livello strumentale, solo chitarra, basso e batteria, un po’ di armonica e totale mancanza delle tastiere.
L’apertura è affidata a “Achille’s last stand”, i cui dieci minuti dimostrano come mai i Led Zeppelin siano entrati nell’Olimpo del rock. L’introduzione è morbida con un breve arpeggio acustico a cui fanno seguito potentissimi riff che affiancano una ritmica poderosa ed eccezionale in cui Bonzo da sfoggio di rullate impressionanti, mentre Jones suona riff di risposta a quelli di Jimmy. Eccellente anche la prestazione di Robert che non risente delle menomate condizioni fisiche. Molte future band di metal hanno attinto a piene mani da questo brano.
Si prosegue con “For your life” traccia dal suono roccioso e vagamente blues in cui Plant alterna un canto normale ad alcuni momenti più urlati per un testo che recita di come l’abuso di cocaina stia rovinando la scena musicale californiana.
Il terzo pezzo è un funk dal titolo “Royal Orleans” ed è firmato da tutti e quattro i musicisti. A spiccare sono gli stacchi in controtempo e l’assolo di Page.
Il brano più interessante, mi colpì anche al primo ascolto, è “Nobody’s fault but mine” con un’introduzione di slide quasi laidback doppiata dalla voce di Robert. Poderoso Bonham quando picchia le pelli con enorme vigore in supporto all’assolo di armonica. Una volta entrato in testa non ne esce più.
“Candy store Rock” è un divertente r’n’r suonato con durezza, ma che mantiene le atmosfere degli anni ’50.
Interessante la successiva “Hots on from nowhere” in cui chitarra e basso agiscono in sintonia con la parte vocale che si incastra alla perfezione per dare il la all’assolo di chitarre sovraincise.
L’album si chiude con “Tea for one” uno struggente blues che richiama “Since i’ve been loving you” che, pur non raggiungendo quelle vette assolute, risulta ispirato ed ottimamente suonato.
Non fu un successo a livello di vendite (solo quattro milioni di copie), ma un lavoro in grado di offrire tanti spunti interessanti.
Presentato da una bizzarra copertina ad opera dello studio Hipgnosis, in cui una tranquilla famigliola siede al tavolo con al centro un obelisco nero.
Se lo avete accantonato oppure non lo avete mai ascoltato vi suggerisco di ricorrere ai ripari!!!
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