La prediletta folk-punk-indie di tutti i nostri sogni, Laura Stevenson, è tornata con il suo sesto album in studio omonimo, che è stato rilasciato dalla Don Giovanni Records.
Ogni canzone è piena delle tipiche armonie di Stevenson e dei delicati gorgheggi. Ogni traccia che Laura ha condiviso con noi non è altro che un pezzo vulnerabile di sé stessa. Il fatto che questo disco sia omonimo significa che è particolarmente esposto; tuttavia, i testi poetici sono velati da pezzi di puzzle emotivi, lasciando agli ascoltatori la possibilità di indovinare e reinterpretare più e più volte il significato che la cantautrice vuole dare. Questo misterioso velo fervido è un dono per gli ascoltatori, che permette di connettersi a ogni canzone in modo diverso ad ogni nuovo ascolto. Ha registrato il nuovo LP con John Agnello, il produttore veterano che ha lavorato con Sonic Youth e Dinosaur Jr. e, più recentemente, Kurt Vile e Waxahatchee. Insieme, hanno realizzato un album che sembra elegante, confortante e disadorno. In contrasto con la rabbia traboccante della sua traccia di apertura, “Laura Stevenson” mira a catturare una qualche forma di pace placida, mentre tenta di tenere sotto controllo le sue emozioni negative e non lasciare che la consumino completamente.
“State” inizia come un gemito sommesso su una cacofonia di un’orchestra di accordatori prima che la canzone si scateni con rabbia. La traccia ha una dinamica rumorosa, perfettamente eseguita, e Stevenson finisce con un poetico nervo scoperto: ‘Che modo eccellente di venire/ Divento rabbia, un fulgido esempio di rabbia pura/ Puro e reale e appiccicoso e commovente e dolce’. “Moving Cars” è una ballata malinconica in discussione, la premessa della domanda: ‘Posso cambiare idea?’.
“Continental Divide” è una melodia country swing, che riflette su come mantenere un rapporto a distanza. Forse la relazione è amore o amicizia; tuttavia, ci sono momenti in cui la canzone sembra connettersi direttamente con la nuova bambina di Stevenson, ora e in futuro. In questa interpretazione, Laura mostra di comprendere che sua figlia sta crescendo proprio davanti ai suoi occhi e che c’è solo così tanto che una madre può fare in questo nuovo mondo coraggioso per proteggere suo figlio.
“Wretch” trasmette una particolare atmosfera da strega. Forse è il titolo a cui associo immediatamente le prove dell’essere femminile al mistico, ma c’è un sottofondo di Joni Mitchell, “Mary” è una splendida ninna nanna. Il ritmo ottimista di “Sandstorm” nasconde un messaggio più oscuro di cosa significhi essere veramente sopraffatti. La canzone più rivelatrice dell’album è “Children’s National Transfer”. In due brevi minuti, la solitudine e la durezza degli ultimi due anni, filtra attraverso la chitarra della nostra in una riflessione sulla corsa al supermercato.
“Laura Stevenson” è un’aggiunta carnosa al catalogo della autrice. L’album non è un altro disco in quarantena. E non si tratta nemmeno delle sfide di essere una nuova madre. Riguarda il fardello irregolare della femminilità. C’è ancora gioia in questo lavoro, ma essa è spesso fraintesa e mal diagnosticata, perché anche quando il buono e il bello sono proprio di fronte a noi, le donne portano ancora un carico diverso del brutto e del cattivo. “Laura Stevenson” è una raccolta di canzoni tenere e in continua ricerca. L’attenzione è, il più delle volte, sulle parole e su come riescono a scontrarsi in modo così bello con gli arrangiamenti semplici che preferisce. Nella penultima traccia dell’album, “After These Who Mean It”, la voce sale a livelli agghiaccianti mentre canta obliquamente sul tentativo di rimanere saldi. È un momento culminante morbido e sbalorditivo di un album pieno di quel tipo di momenti, in cui tutto scompare e si è lasciati con un silenzio inquieto.
È un disco bello dall’inizio alla fine, un ritratto sincero di un cuore umano in tutti i suoi colori vibranti. Più di ogni altra cosa, si tratta di portare tutta sé stessa di fronte a coloro che si amano – a disagio, esposta, ma vitale, presente!!!
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