Era da tempo che non mi capitava di ascoltare un disco del sottobosco musicale americano che suscitasse in me una reazione di godimento così intensa. Ancora più strano che a realizzare il lavoro sia stato un musicista canadese accompagnato da una band proveniente dallo stesso paese.
Finora non avevo mai sentito parlare di Jon Brooks, questo non significa che sia un novellino anzi la sua discografia conta già cinque album alle spalle, il più recente dei quali risale alla fine dello scorso anno e si intitola “No one travels alone” una raccolta di brani composti da ballate sentite, spruzzate di folk, arrangiamenti parchi, voce calda ed espressiva ed una strumentazione perfetta per ogni situazione.
Il lavoro che ho tra le mani si intitola “Moth no trust II” che significa che in passato c’era stato un primo volume che risale al 2009 e proponeva un sound acustico. Ora il disco viene riproposto, riletto e rivisitato attraverso una scelta di arrangiamenti che lo rivestono a nuova vita. Gli strumenti sono sempre limitati al necessario, le canzoni assumono l’andamento di ballate folk e, ancora una volta, quello che risalta è la voce del nostro che sa farsi protagonista con interpretazioni calde e vissute.
Come detto Brooks è accompagnato dai The Outskirts of Approval che riescono a dare profumi e colori al disco sconosciuti in precedenza grazie al violino di John Showman, al basso di Vivienne Wilder, alla chitarra di Neil Cruickshank, e alle backing vocals di Christina Hutt e Rosemary Phelan. L’opera possiede una propria originalità e personalità, ma non bisogna sottacere le influenze che si percepiscono all’ascolto, infatti Brooks cita Leonard Cohen, Neil Young, Nina Simone e Nick Cave.
L’apertura è affidata a “When we go” brano dall’andamento folk, puro e discorsivo che si dona in forma di ballata e sostenuto dal violino di Showman e da una struttura melodica di forte impatto emotivo. “What’s within us” è una canzona dalla lunga durata, è molto discorsiva, Jon narra più che cantare, il suono è scarno, ma il risultato è che la si vorrebbe riascoltare di continuo. “The crying of the time n. 3” vede protagonista ancora il violino e la voce dai toni estremamente profondi che rappresenta la nota peculiare della composizione.
La grande capacità dell’autore è quella di saper dosare le parti strumentali miscelandole alla perfezione con i silenzi, ricamando musica su note scarne e basi musicali quasi assenti, oltre a essere in grado di modulare la voce che riesce a riempire gli spazi vuoti di suono, sapiente nel farci entrare in un mondo di sensazioni personali.
Splendida la conclusiva “High five” calda composizione in tono di ballata dal gusto folk in cui gli strumenti sanno portare in risalto la vocalità del nostro cantautore.
Non è necessario aspettarsi continuamente la “next big thing”, oppure attendere lavori dai nomi altisonanti, basta un dischetto come questo per scaldare il cuore ed arricchire l’anima e farci affermare ancora una volta che il rock è dei nomi minori, quelli che suonano più per passione che per rimpinguare il proprio conto in banca.


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