Questa è una versione arrangiata dell’acclamato debutto di Joe Pug del 2008, ora reinventata ed eseguita nello spirito che Joseph Pugliese, vero nome del nostro, intendeva. Più vivace, turbolento e con non troppe spezie musicali inebrianti. Il CD ha un meraviglioso inserto cucito con i testi. “Nation of Heat/Revisited” di 28 minuti e 7 tracce non è abbastanza lungo. Prodotte e arrangiate da Mr. Pug nel Maryland, le canzoni non perdono tempo a dare il massimo… siediti, bevi molto e ascolta.
Pug (voce/basso/piano/armonica) è un vero narratore nella tradizione di John Hiatt. Ogni taglio ha i suoi tatuaggi e le sue cicatrici in vista. Ci sono diversi cantanti che esplorano queste terre – Otis Gibbs, Jon Dee Graham, il compianto John Martyn e ora Joe Pug – radicati in quel terreno che ha dato origine a Steve Earle.
I brani di Joe non hanno esclusione di colpi. La bellezza è cruda, non pensata per farti sorridere, ma meraviglia. “Nobody’s Man” (‘… ora ho una scheggia nelle mie dita e c’è cemento di Portland nei miei polmoni’). Questa musica è la colonna sonora di una esistenza grama, senza scherzi. A dire il vero. Accendere la candela ad entrambe le estremità. Sputare sul marciapiede. Sciacquare due volte. È un Tom Waits nordamericano incrociato con la spigolosità e la severità del compianto Warren Zevon e del canadese Tom Wilson.
Joseph esplora il moderno sotterraneo con un’armonica scura in “I Do My Father’s Drugs” (‘Se torno con gli occhi semiaperti non chiedermi dov’ero’). Roba potente mascherata da una bella melodia. Così disse una volta Tom Waits: ‘Mi piacciono le belle melodie che mi narrano cose terribili’. Si, certo, non ci può essere nulla di meglio.
Con “Hymn # 35”, una fetta profonda e meravigliosa di John Hiatt fuoriesce dalla gola di Joe Pug. Testi eccellenti e melodia inquietante. Questo può anche rasentare il blues, il blues letterato. Adoro le composizioni piene di una produzione avvincente, qualcosa che ho iniziato a scoprire con “Fresh Blood” di Steve Swindell, del 1979. Ogni brano aveva quella densità lirica dura con la poesia dei calanchi urbani e la produzione che ti ha inghiottito.
Ci vuole immaginazione per scrivere tracce quali “Call It What You Will”. Le parole non provengono da un libro di testo, ma da storie di marciapiedi e vicoli intrisi di whiskey, sigari e pozzanghere di pioggia. Scritto da dita con calli, vesciche e unghie divise. “Nation of Heat”, ha una melodia cesellata simile a quella ricca e densa di Buddy Miller. Dolorosamente bello.
Il nostro ha chiamato a raccolta colleghi del livello di Mark Stepro & Dom Billett (batteria), Phil Kronengold (organo), Rich Hinman (pedal steel), Matthew Wright (piano), Justin Craig (chitarre elettriche), Carl Broemel (chitarre elettriche/pedal steel), Derry Deborja (synth), BJ Barham (flauto di pan), Brandon Flowers e Courtney Hartman (cori). Non si tratta di un disco remix né rimasterizzato e neppure espanso, ma di un lavoro nuovo a tutti gli effetti e la cui cifra stilistica risiede in quel rock classico che non ha più presa sugli ascoltatori.
Non lasciatevelo scappare se Mellencamp, Zevon, Marc Cohn e Michael McDermott sono stati significativi per voi!!!
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