Nel cinema esistono i b-movie che non significa che siano film mediocri, di serie b appunto, ma piuttosto lungometraggi in cui il regista è sconosciuto, gli attori sono dei personaggi di scarsa fama oppure il budget a disposizione per la realizzazione alquanto limitato.
Sono un appassionato dei b-movie così come lo sono di quei musicisti, solisti o gruppi, che non se li fila nessuno perché non hanno spinte dalla stampa o dalle radio ed incidono per etichette indipendenti a scarsa diffusione oppure si autoproducono. Anche in questo caso non si tratta di musica di categoria inferiore, ma di situazioni di scarso budget a disposizione. Come per i film si possono ascoltare artisti di spessore che non hanno nulla da invidiare a quelli più famosi.
Il caso di Jeffrey Foucault è emblematico di quanto esposto sopra. Si tratta di un singer-songwriter che ha deciso di navigare sotto traccia, di scegliere di esprimersi come più gli aggrada senza dover rendere conto a nessuno, siano case discografiche o produttori di fama.
La sua cifra stilistica è gentile e sommessa, la sua via alla composizione porta in dote canzoni che si muovono tra folk, country e blues. La discografia del nostro conta ormai una decina di dischi in un lasso temporale di quindici anni di attività.
Il nuovo album “Blood brothers” è uscito alla fine di giugno, ma sono riuscito ad ascoltarlo solo ora, tra la marea di dischi da vagliare giornalmente. Tra gli accompagnatori due nomi importanti per chi segue un certo genere di musica cioè il chitarrista Bo Ramsey (Greg Brown, Lucinda Williams) e il batterista Bill Conway (fu collaboratore del compianto Mark Sandman sia nei Treat Her Right che nei Morphine).
È un lavoro incentrato sulle memorie di Jeffrey, su sogni ad occhi aperti, ma più in generale su temi che trattano della vita quotidiana con i suoi alti e bassi, i suoi momenti felici in contrapposizione a quelli tristi, ma soprattutto di cose che potrebbero risultare banali che invece hanno un certo rilievo nell’esistenza del nostro autore.
Per capirci basta ascoltare il brano d’apertura “Dishes” in cui si parla di lavare i piatti di prima mattina per poi preparare la colazione alla figlia da portare a scuola mentre fuori è ancora buio, ma c’è tutta una giornata da vivere e da amare in compagnia dei propri cari il tutto con un accompagnamento musicale lieve e caldo.
Si elettrifica un po’ di più con “War on the radio” in cui possiamo scorgere tra le righe del testo quello che è l’atteggiamento di Foucault cioè il credere ancora nel R’n’R che permette alla propria anima di essere salvata dalla morte.
“Brown” è impreziosita dalla pedal steel di Eric Heywood, un brano suonato in punta di dita ed arricchito nel ritornello dalla voce di Tift Merritt.
Il brano omonimo è una storia di dolore che parla di un addio, ma che musicalmente rasenta una dolcezza quasi a voler soffocare la sofferenza.
Compositivamente parlando “Cheap suit” è un pezzo di gran classe in cui il nostro si immedesima in una persona qualunque che al tramonto imbraccia una chitarra nel portico di casa sua, la accorda tra un sorso di birra e l’altro e si lancia a suonare quasi per fare in modo che l’anima ne tragga sollievo e che l’andamento della giornata possa prendere una diversa piega.
Jeffrey ha classe perché riesce ad essere poetico prendendo spunto dalle cose che sembrano ai più insignificanti e le rende in musica in modo accattivante e mai sopra le righe.


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