Alcune serate fa ero sprofondato nella poltrona della sala e osservavo estasiato il tramonto del sole poco prima delle venti, era l’annuncio della fine di quel tedio che per me rappresenta l’estate. Quelle immagini mi hanno riportato indietro di una ventina d’anni in una gelida serata di gennaio mentre percorrevo l’autostrada di ritorno da Milano. Il cielo era limpido ed illuminato da un numero impressionante di stelle mentre in auto ero accompagnato dalle canzoni di Jackson Browne tratte da un greatest hits da poco uscito. Le sensazioni che tali pezzi mi suscitarono, in quel contorno, sono indescrivibili. Non avevo mai posto il cantautore californiano tra i miei preferiti, ma quella sera tutto cambiò ed entrò a far parte della schiera degli irrinunciabili.
Songwriter tra i più raffinati della storia del rock, scrittore di musiche e liriche tanto profonde quanto memorabili, subì l’infatuazione di Dylan intorno al 1965 grazie all’ascolto di “Bringing it all back home”. Furono quelle canzoni così letterarie e magnificamente costruite che gli cambiarono l’esistenza. Si rese conto della differenza tra la tranquilla narrazione dei brani folk e la realtà che Bob Dylan descriveva, cioè vita contemporanea pennellata in maniera surreale. Tanto colpito che dopo aver speso anni a suonare “The times they are a-Changin’” nella sala da pranzo (parole del fratello minore Severin), decise che era giunto il momento di ripercorrere la strada battuta dal menestrello di Duluth, quindi via dalle spiagge californiane ed immersione nel Greenwich Village tra cantautori che suonavano le loro canzoni tra i grattacieli di New York, in mezzo ai poeti della Big Apple. Le prime esperienze con le droghe, l’innamoramento con la matura Nico che inciderà tre canzoni del nostro nel suo esordio “Chelsea Girl”, l’incontro con Tim Buckley, nella cui band newyorchese suono la chitarra per un breve periodo. Decise poi che, finita la breve ed intensa storia d’amore con la cantante tedesca, era l’ora di rientrare nella sua California. Arrivò all’album d’esordio omonimo nel 1972, ma non è di questo che voglio raccontarvi.
“Late For The Sky” è il suo terzo disco, quello della definitiva maturazione di un musicista colto e sensibile. Coadiuvato da un gruppo eccelso (David Lindley alla chitarra, Doug Haywood al basso, Larry Zack alle percussioni e Jai Winding all’organo), Browne dà vita a un disco suonato e arrangiato in modo impeccabile, anche grazie al lavoro di Lindley, uno dei chitarristi più geniali della storia del rock, che con il suo strumento, quello che di solito nel rock è il più narciso, preferisce prodigarsi in ricami e intarsi sonori sopraffini piuttosto che lasciarsi prendere da manie di vuoto esibizionismo. Si tratta del disco in cui l’equilibrio tra la vena cupa e romantica, quella in grado di dare vita alle sue migliori ballate si sposava con lanci di rock’n’roll catartico.
L’apertura è affidata alla title track capace di toccare le corde dell’anima come mai prima, si regge su un organo struggente e la voce di Browne limpida e malinconica, e poi quelle poche note di piano dove sembra coagularsi tutta la solitudine umana e per contrasto un inspiegabile bisogno d’amore. L’assolo di Lindley è in grado di sciogliere il cuore anche all’animo più bestiale. Una delle canzoni sull’amore e sulla perdita più belle di sempre.
Segue un altro brano memorabile, “Fountain Of Sorrow”, il ritmo è leggermente più marcato, ma la malinconia e il cantato puro ed incontaminato di Jackson lo rendono il profeta dei sentimenti forti.
In “Further On” David Lindley raggiunge l’apice del suo stile chitarristico, non interessato alla mostra della propria indiscutibile bravura ma desideroso di dipingere le architetture attraverso le quali il lavoro pianistico di Browne rende la melodia disperata. “The Road And The Sky” è una cavalcata spensierata on the road, le chitarre inaspriscono il suono mentre il pianoforte, fino a quel momento composto, si dirige verso un boogie scalmanato.
È con il pezzo finale, “Before the deluge” inno della battaglia antinucleare, che si raggiunge un altro apice della poetica del nostro. È uno sforzo di ottimismo per i sognatori e gli stolti desiderosi di pianificare il futuro nonostante tutto. Un requiem per organo e viola a descrivere la desolazione del mondo che si chiude in un gospel salvifico.
Jackson è un personaggio che trova la sua espressione ed ispirazione tra i chiaroscuri dell’anima, nel tratteggiare le ferite dello spirito degli esseri umani nella misera quotidianità, ma che dona loro anche una speranza per il domani in cui non ci saranno solo miserie, ma anche gioie.
Non abbiate timore ad affrontarlo, ne uscirete sicuramente migliorati perché capirete che in fondo al baratro esiste sempre una speranza!!!

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