Questo primo terzo di 2018 è già stato teatro di ritorni più o meno fortunati, occupiamoci ora dei notevoli Hot Snakes, paladini del post hardcore, per chi ama etichettare tutto.
Sono passati ben dodici anni dalle loro ultime apparizioni, anche se in realtà nel 2011 John Reis e Rick Froberg avevano già ripreso a fare concerti sotto queste spoglie, a testimonianza di una luminosa carriera che di fatto, dai tempi dei Drive Like Jehu e dei Rocket From The Crypt, non aveva mai davvero conosciuto soluzioni di continuità.
Ad accoglierli non più la minuscola Swami, fondata dallo stesso Reis, ma una Sub Pop come sempre sul pezzo.
Lo si capisce subito dal repentino attacco di I Need A Doctor, un crudo punk rock che farebbe invidia a band decisamente più giovani, che con Jericho Sirens sono tornati per fare sul serio e che l’urgenza di scrivere nuovi episodi è stata concreta e sincera.
Il resto dell’album non è di certo inferiore, sia per il livello compositivo che per l’attitudine e la rabbia.
Candid Cameras elargisce la dose sindacale di emo, Having Another è un grande pezzo Stooges meets Sonic Youth, con il riff di I Feel Alright spacchettato e riavvolto.
Stessa storia, solo tre volte più veloce, in Why Don’t It Sink In?, mentre Death of A Sportsman ricorda i Mudhoney più incazzosi.
Nel complesso una vasta linea rossa, dai Wipers ai Black Flag e agli Helmet, passando per i Blonde Redhead, li porta ad esplorare con grande destrezza 30 anni di rock alternativo made in USA. Scusate se è poco.
Si potrebbe muovere loro la tiepida accusa di non variare quasi mai tempi serrati e vena polemica, ma si tratta di dettagli nel contesto di un album che, nell’arco di poco più di 30 minuti, convince al 100%.

Marco Melegari


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