GOAT – ‘Oh Death’ cover albumC’è molto di più nella musica psichedelica dei Goat oltre all’idea riduttiva che siano la band che suona a un devoto raduno voodoo in un lontano villaggio svedese, momenti prima di un sacrificio umano. Tuttavia, la traccia di apertura di questo album soddisfacentemente sfocato non fa assolutamente nulla per dissipare quell’idea; piuttosto “Oh Death” si crogiola totalmente in esso.

Iniziamo con alcune voci sonore trovate e distorte che cantano in stile Python per tirare fuori i tuoi morti. Poi entra in gioco la musica vera e propria, la chitarra a sega circolare fa vibrare i tuoi altoparlanti, si accende un groove di batteria da processione militare e un paio di voci femminili acuminate cantano: ‘Presto muori, non so perché’; è quasi come se i Goat non stessero semplicemente spazzando via le ragnatele nei loro sei anni sottoterra, nel riemergere intendessero calpestare i deboli di cuore che farebbero meglio ad avere il coraggio di salire a bordo con questo oppure di correre via per le colline.

L’ultimo disco di Goat è stato “Requiem” del 2016 e molti potrebbero aver pensato che non si sarebbero mai più risollevati, soprattutto visti i toni più cupi e il conseguente silenzio di queste curiosità che indossano maschere. Negli anni precedenti avevano cavalcato il loro tappeto magico attraverso i palchi dei festival del mondo, deliziando migliaia di persone con la loro astronave lontana dal suono psych-fusion, mantenendo con determinazione un’aria di intrigo dietro quelle maschere.

Fino ad oggi, si sa poco di loro oltre al fatto che provengono dal villaggio svedese di Korpilombo e sono fornitori di uno smisurato grano di psichedelia, uno che accoglie tutti i tipi di elementi, tra cui Jazz Fusion, Afro-Beat, razzi Psych-Rock e nubi acustiche sognanti.

Questo rilascio è una montagna russa di petardi. “Under No Nation” è l’afro-funk per eccellenza, quel ritmo a scatti che mi ricorda un po’ i Talking Heads, meno verso la conclusione dove cade in un caos da brivido. I ritmi della giungla di “Do The Dance” evocano un groove Glam Rock, dimostrando che questi re maghi possono scatenarsi nel paese con i migliori di loro.

Intermezzi inaspettati mantengono vivo il viaggio con interesse, come l’introduzione di una sezione di pianoforte solista alla fine di “Blessings” o i flauti e il sassofono presenti in “Goatmilk”. Tuttavia, nulla viene rivelato; “Blow The Horns” vomita il testo ‘è nato un bambino’, che alimenta l’idea che la morte a cui si fa riferimento nel titolo dell’LP sia finita con una resurrezione, che è certamente ciò che è successo per gli stessi Goat.

Chiunque siano, questa formazione si è alzata e ha servito l’avviso del loro ritorno con il lavoro più sconvolgente e incisivo della loro carriera finora. L’effetto che queste dieci tracce lasciano sull’ascoltatore in una breve raffica di 34 minuti è incredibilmente meraviglioso; non sforzarti di capire questo; perditi nella gioia vertiginosa dell’esperienza!!!


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