I britannici Gnod ritornano più feroci che mai con questo “La morte del senso”, e non a caso. Il disco infatti è la diretta reazione ai tumultuosi ultimi due anni, come bene ha sintetizzato il membro della band Paddy Shine: «Penso che il titolo riassuma bene la natura del disco, nato tra la confusione imperante, la stessa che ancora governa le nostre vite. Ognuno di noi ci si può riconoscere. Il disco in sé è una bestia strana (…) Il titolo rispecchia quel senso di incredulità, quello che ci ha fatto chiedere ‘Ma che cazzo sta succedendo?’. Ecco forse l’avremmo proprio dovuto intitolare così».
Musicalmente i cinque brani contenuti nell’album segnano un parziale ritorno alle atmosfere più crude e claustrofobiche del classico “Just Say No To The Psycho Right-Wing Capitalist Fascist Industrial Death Machine” e catturano bene l’energia che la band riesce a produrre nella dimensione più congeniale, quella delle esibizioni dal vivo. Dai riff angolari e caustici di “Regimental” all’incessante e brutale attacco sensoriale di “Pink Champagne Blues”, fino ai magmatici, stordenti dodici minuti del conclusivo knock-out “Giro Day”.
Le canzoni trasmettono un senso di abbandono, con gran parte della giusta rabbia tipica della formazione che si trasforma in nichilismo. L’esempio più ovvio di questo tetro atteggiamento ‘per domani moriremo’ è il singolo principale “Pink Champagne Blues” che corre come un rinoceronte in velocità e include esortazioni come ‘Fatti scopare, corsa alla testa’. Viene fornito con un video di skateboarder che è un chiaro omaggio a “100%” dei Sonic Youth e ci sono molti riferimenti al rock alternativo di fine anni ’80 e inizio anni ’90 in tutto il lavoro.
Tutto inizia con “Regimental” e presenta il suono secco, pizzicato e metallico della chitarra di Big Black in mezzo a un feedback sempre presente e ai loro soliti due batteristi che picchiano. La traccia è messa in primo piano da campionamenti di musicisti che parlano di rilasciare nuovo materiale, respingendo le ormai solite domande su date di rilascio ritardate e piani sventati. È difficile discernere se questo è un commento ironico sui cliché del rock n roll, una nota di solidarietà, una spazzata dei ponti prima che il combattimento ricominci o una combinazione di tutti e tre.
Le cose rallentano leggermente su “The Whip and the Tongue”, un ritmo ombroso e toni di chitarra post-punk uniti da un sax lamentoso e agitato sopra le note di basso enormi e palpitanti. Rallentano ancora di più sullo scaglionamento industriale di “Town”, questi ragazzi di Salford che si inchinano alla superiorità industriale di Birmingham su uno straziante paesaggio sonoro metal di ‘Fabbriche, fabbriche, turni di notte, turni di notte’. Raramente l’uso della ripetizione ipnotica da parte delle band è stato più direttamente appropriato. Sicuramente non è un errore che “Giro Day” segua poi – sì, non c’è luce alla fine di questo tunnel – solo dodici minuti di torbido, stridente, apocalisse. C’è un ronzio, un canto di gola e livelli quasi operistici di magniloquenza in competizione in un modo in cui le altre canzoni dell’album non si avvicinano nella loro brutale risolutezza.
Nato dalla frustrazione e dalla misantropia con l’intento di provocare una comunione dal vivo, ferocemente intransigente e stranamente avvincente, “La Mort Du Sens” è la tipica musica GNOD, pur non suonando come nient’altro che abbiano mai fatto!!!
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