Fletcher Tucker ha vissuto per sette anni nel Big Sur, ed ha impiegato quattro anni per pubblicare il disco ‘Cold Spring’ stampato dalla Gnome Life Records. Ora, non so se sappiate cosa sia il Big Sur, ma vi posso dire che è uno dei luoghi più aspri, dolci, incantati e selvaggi che si possano trovare. È una regione della costa centrale della California dove i monti Santa Lucia si alzano a picco sull’Oceano Pacifico. Le montagne trattengono l’umidità delle nuvole sovente in forma di nebbie mattutine, creando un luogo favorevole alla foresta in cui troviamo le sequoie. Più all’interno la foresta di conifere scompare e la vegetazione si trasforma in boschi di querce e quindi nel chaparral californiano. Il relativo isolamento e la bellezza naturale dell’area attirarono molti scrittori ed artisti a metà del Novecento, tra cui Henry Miller, Hunter S. Thompson e Jack Kerouac. La regione divenne anche centro di meditazione e di studi di un monastero cattolico, il New Camaldoli Hermitage, fondato nel 1958 e dell’Esalen Institute che ospitò molte delle figure del nascente movimento New Age. Questo è il luogo in cui Fletcher ha abitato e vissuto per sette anni cercando una profonda relazione con la flora e la fauna del posto. Ha perseguito una rinascita spirituale, mentale e fisica cercando di venire in contatto con il linguaggio primordiale di ciò che lo circondava, che fosse il terreno, la tempesta, le pietre e l’acqua. Tutto questo giustifica la lunga gestazione dell’album, per un lavoro che nasce dall’isolamento dal mondo esterno per meglio concentrarsi sulle cose che fungevano da ispirazione musicale.
Il disco si apre con ‘Unborn Mind’, con un organo a pompa e il sottile suono di un synth. ‘Dark Teaching’ è una ballata acustica folk nella forma ma che rimanda alla psichedelia. ‘Shadow Bridge’ è un brano strumentale che ci trasporta in una dimensione oscura. ‘I Became Smoke’ è una ballata dove entra in campo una voce femminile, Molly Erin Sarlé, di forte impatto emotivo con tastiere dietro nel mixaggio ed un sax che chiude il cerchio. ‘Celestial Underworld’, di nuovo strumentale, è un gioco di specchi tra campane tibetane e cembali. Le atmosfere sono quiete e malinconiche mentre i contrappunti strumentali sono a volte concitati e selvaggi. Ci troviamo di fronte ad un’opera che rimanda alla miglior stagione del weird folk dei primi anni Duemila. Stupenda anche la copertina del disco che invoglia all’acquisto.

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